“Per proteggere il mare bisogna amarlo e per amarlo bisogna conoscerlo”: Ilaria Congiu racconta Breath, il suo documentario d’esordio sull’inquinamento marino
- Postato il 19 luglio 2025
- Cinema
- Di Il Fatto Quotidiano
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“La struttura del film si ispira al mare: quando galleggi sulla sua superficie non sai dove stai andando, eppure ti muovi; così avrebbero dovuto scorrere le scene”, spiega Ilaria Congiu, regista italiana con origini senegalesi al suo esordio con “Breath (Souffle)”, un documentario sull’inquinamento marino girato tra Senegal, Italia e Tunisia. Distribuito da Mescalito Film nelle sale italiane, Breath è contemporaneamente un viaggio interiore e un’indagine sulla realtà. In primo piano ci sono la storia di Ilaria e il rapporto con suo padre, Francesco, titolare di un’azienda di esportazione di pesce congelato in Senegal. Sullo sfondo, la denuncia del degrado ambientale e dell’impatto delle attività umane sugli ecosistemi e sulla biodiversità. Dietro la macchina da presa, alla base del progetto sviluppato nell’arco di quattro anni, due forze motrici: l’amore per il mare e la ricerca della verità.
Quando ha smesso il mare di essere soltanto un compagno di vita per diventare un oggetto di ricerca? “Quando è cambiato il mio sguardo”, risponde Ilaria, nata a Dakar, capitale del Senegal affacciata sull’Oceano Atlantico, dove ha vissuto fino ai 14 anni. “Da bambina lo vivevo senza consapevolezza: il mare erano le immersioni, il surf. Poi qualcosa è scattato. Non saprei dire esattamente quando. Credo sia stato dovuto a un insieme di cambiamenti che ho iniziato a vedere: prima c’erano gli squaletti, poi non li ho più visti. È come se quell’elemento mi stesse lanciando un segnale”.
Un ruolo fondamentale in questo processo lo ha avuto il padre, che l’ha avvicinata fin da piccolissima al rispetto dell’ambiente. “Per entrare nel suo mondo ho iniziato a leggere, a farmi raccontare i cambiamenti che osservava, anche a livello commerciale, e le ricadute sulla pesca”, racconta.
Il film, in questo, si rivela un’indagine sulle contraddizioni – quelle che attraversano la vita della regista, e quelle che ciascuno di noi porta con sé. Suo padre, spiega Ilaria, è un uomo che ha sempre amato il mare e che al tempo stesso non ha mai nascosto di lavorare in un settore – il commercio ittico industriale – parte integrante del sistema consumistico che la pellicola individua come causa del cambiamento climatico, dell’inquinamento marino e della conseguente distruzione di habitat, ecosistemi e biodiversità. Il documentario nasce dalla rabbia e dal dolore per la deturpazione del mare, ma non
pretende coerenza assoluta da chi guarda né cerca colpevoli. “È importante”, argomenta Ilaria, “avere consapevolezza del proprio impatto e provare a ridurlo, capire come rimediare”. Per farlo, evidenzia, è imprescindibile la conoscenza: “Non serve a niente chiedere a qualcuno di correre se non ha nemmeno le scarpe”.
Mi sembra, prosegue, “che il mare sia come un genitore, e che la maggior parte di noi si comporti da adolescente: pur dovendogli la vita, lo rifiuta, lo ignora, proiettando su di esso la presunzione di poterlo modellare a proprio piacimento, come se fosse al proprio servizio”.
Questa indifferenza, spiega, “nasce dal fatto che sappiamo ancora troppo poco: abbiamo mappato meglio Marte dei fondali marini. Per proteggere il mare bisogna prima amarlo. E per amarlo, bisogna conoscerlo”.
Il mare, al singolare. Per scelta, precisa la regista, nel film non compaiono i nomi dei Paesi in cui sono state girate: “Per me il mare è uno solo; i nomi – Pacifico, Atlantico, Indiano – li diamo noi”.
Per riconnettersi con questo elemento, sottolinea, è importante sentire la sabbia sotto i piedi, vedere i pesci con i propri occhi. Ma se non si ha la possibilità di farlo, conclude, “ci resta l’immaginazione, che è bellissima e gratuita. Raccontare storie, spiegare che veniamo dal mare. Sarebbe già un primo passo”.
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