7 ottobre, due anni dopo: la memoria delle vittime e la pace ostaggio della propaganda di Hamas

  • Postato il 7 ottobre 2025
  • Di Panorama
  • 3 Visualizzazioni

Due anni dopo il 7 ottobre 2023, il giorno che ha segnato per sempre la storia di Israele e dell’intero Medio Oriente, le ferite di quella mattina restano aperte. Migliaia di israeliani massacrati, famiglie distrutte, centinaia di ostaggi trascinati nei tunnel della Striscia di Gaza: è stato l’attacco più sanguinoso mai subito dallo Stato ebraico dalla sua fondazione. Ma a distanza di ventiquattro mesi, mentre il mondo ricorda le vittime di quelle stragi, Israele si trova ancora nel cuore di una guerra che sembra non conoscere tregua, logorata da una campagna di demonizzazione internazionale e da una propaganda che, soprattutto in Europa, continua a riscrivere la storia a vantaggio di Hamas. Il 7 ottobre non è mai stato un “atto di resistenza”, come ancora oggi tenta di far credere la propaganda filo-palestinese, ma un massacro deliberato contro civili inermi: bambini, donne, anziani, giovani massacrati nei kibbutz o catturati nei festival musicali. Le immagini di Be’eri, Kfar Aza e Re’im sono diventate il simbolo dell’orrore. Israele ha reagito con la forza, lanciando un’operazione militare su larga scala per smantellare l’apparato terroristico di Hamas nella Striscia di Gaza.

La guerra che ne è conseguita

Ma la risposta militare, pur inevitabile, ha aperto una lunga stagione di scontri, crisi umanitarie e tensioni internazionali. I leader di Hamas, nascosti nei bunker sotterranei o rifugiati negli hotel di Doha, hanno fatto del sacrificio dei propri civili uno strumento politico, trasformando la sofferenza della popolazione di Gaza in un’arma di propaganda globale. In questi due anni, Israele è stato trascinato in un processo di delegittimazione senza precedenti. Nelle università europee, nelle piazze occidentali e perfino nei media internazionali si è diffusa una narrazione distorta che cancella la responsabilità di Hamas e presenta Israele come aggressore. Le immagini di Gaza in macerie vengono sistematicamente decontestualizzate, mentre il terrore del 7 ottobre viene progressivamente rimosso o minimizzato. Sui social network, gli apparati di disinformazione legati a Hamas e alla Fratellanza Musulmana hanno orchestrato una campagna di propaganda capillare: influencer, giornalisti, account coordinati e movimenti di piazza che invocano la “liberazione della Palestina dal fiume al mare” – uno slogan che nella sua forma originaria equivale alla cancellazione di Israele.In Europa, la strategia di Hamas ha trovato terreno fertile tra gruppi radicali, organizzazioni di sinistra estrema e movimenti pro-palestinesi finanziati in modo opaco. Si tratta di un’operazione di ingegneria ideologica: ribaltare la percezione di carnefici e vittime, far dimenticare le stragi, trasformare un’organizzazione terroristica in un soggetto politico “legittimo”.

I colloqui di pace

Oggi, mentre a Sharm el-Sheikh sono iniziati i colloqui mediati dal presidente americano Donald Trump per una soluzione politica, la pace resta un traguardo lontano. Le delegazioni israeliana e palestinese non siedono allo stesso tavolo; il dialogo è indiretto, frammentato e carico di sospetti. Hamas ha già posto condizioni inaccettabili: chiede la fine totale del blocco senza disarmo, il ritiro immediato dell’esercito israeliano e la liberazione di centinaia di detenuti che hanno partecipato alle stragi del 7 ottobre e di almeno sei capi dell’organizzazione jihadista condannati a piu’ ergastoli. Israele, dal canto suo, ribadisce che non esiste alcuna trattativa finché l’ultimo ostaggio non sarà liberato e le Brigate Qassam non avranno deposto le armi.

Dietro la facciata diplomatica, il movimento jihadista tenta di guadagnare tempo. Ha rallentato ogni passo concreto, ha cambiato più volte i suoi rappresentanti e alimenta tensioni interne pur di non arrivare a un’intesa che ne segnerebbe la fine politica e militare. Le famiglie degli ostaggi ancora in mano a Hamas vivono da due anni in un limbo di angoscia. Le notizie sui loro cari arrivano a intermittenza, spesso filtrate attraverso negoziatori o intermediari di Doha e del Cairo. Ogni rilascio è stato barattato come moneta di scambio per ottenere vantaggi politici, libertà per terroristi detenuti o cessate il fuoco temporanei. Questo cinico gioco del terrore ha congelato il processo di pace e spaccato la comunità internazionale. Mentre l’Unione Europea tenta di ritagliarsi un ruolo nel “Board of Peace” americano, Hamas continua a sabotare ogni passo avanti con la stessa logica che due anni fa lo spinse al massacro: mantenere il conflitto aperto, trasformare la distruzione in consenso, la guerra in potere.

La manipolazione mediatica

Ricordare il 7 ottobre significa non cedere all’oblio né alla manipolazione. Significa ricordare che la guerra non è iniziata con la risposta israeliana, ma con l’assalto di Hamas. Significa riconoscere che ogni pace possibile passa attraverso la sconfitta di chi ha fatto del terrorismo una strategia politica. Due anni dopo, Israele resta in stato d’allerta, circondato da nemici e da un’ostilità crescente anche nei salotti europei. Ma la memoria delle vittime del 7 ottobre impone una certezza: la pace non potrà nascere dall’ipocrisia, né dall’equiparazione tra chi ha scelto di uccidere e chi ha il diritto di difendersi. Solo quando Hamas sarà privato del suo potere di ricatto e della sua macchina di propaganda, il Medio Oriente potrà davvero cominciare a parlare di pace.

Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti