A Lawrence (Kansas) il cine-concerto“Il fuoco” di Giovanni Pastrone (1915)
- Postato il 8 ottobre 2025
- Cinema
- Di Paese Italia Press
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Il film richiama il romanzo di Gabriele D’Annunzio, Il fuoco, suddiviso nei due libri L’Epifania del fuoco e L’Impero del silenzio (che avrebbero dovuto far parte della trilogia I romanzi del Melograno, peraltro mai realizzata). Uscito nel 1900, l’opera letteraria ebbe un immediato successo e qualche anno più tardi D’Annunzio fu chiamato a scrivere le didascalie del film ma in realtà la sua collaborazione permeerà – eccetto che per la regia e la produzione, affidata alla Itala (società cinematografica torinese fondata dallo stesso Pastrone) – ogni aspetto della realizzazione della pellicola. Le didascalie vengono scritte secondo il personale canone letterario dannunziano in un linguaggio culturalmente alto il cui simbolismo illuminava le scene toccando ogni oggetto che assumeva significati altri: specchi, lampade, divani, letti, abiti sontuosi, tappeti e coperte tessuti con materiali ricercati. Insomma, ogni cosa, anche la decadenza della casa, le piante non curate, gli angoli incolti della riva di un lago che nascondono, ha la propria funzione in una narrazione parallela alla visione filmica, narrazione che sostiene e aumenta il pathos della storia e definisce fortemente i contorni di una donna-serpe nonché la nascita di una nuova femme fatale, PinaMenichelli. La fortuna del film è immediata grazie certamente alla presenza del mito adorato da tutta l’Italia e all’eco ancora recente dell’enorme successo riscosso solo l‘anno prima da Cabiria (diretto sempre da G. Pastrone) di cui aveva scritto le didascalie e creato i nomi dei personaggi. La letteratura dannunziana passata dal teatro al cinema degli anni Dieci e Venti assume un ruolo predominante (anche se non assoluto: altri autori sono presenti sulla scena fattivamente quali veristi e rappresentanti del futurismo), nel panorama culturale non solo italiano. Quando D’Annunzio scrive le didascalie, queste smettono il proprio carattere meramente ‘didascalico’, informativo cioè, per divenire una sorta di sceneggiatura che non dà indicazioni di lavoro agli addetti alla realizzazione della pellicola, ma riformula significati metaforici di un livello letterario alto coinvolgendo il pubblico, non solo quello borghese, in una nuova esperienza.

Il Film e la protagonista
Il film è interpretato da Pina Menichelli che nel 1915 aveva venticinque anni e già al suo attivo trentacinque film girati in soli due anni (1913 e 1914) con la Cines (V. Martinelli, Pina Menichelli. Le sfumature del fascino). Ma è solo con i personaggi successivi dei film prodotti dalla Itala che l’attrice si impone al pubblico per la sua straordinaria quanto naturale carica erotica, la provocazione di un corpo che si muove a momenti sinuoso come un serpente, in altri momenti teso e pronto a scattare come un animale predatore. I censori arrivarono a imporre il taglio di alcune didascalie che contribuivano a sottolineare il perturbamento pervasivo di alcune scene e addirittura vietarono la proiezione del film La moglie di Claudio con la motivazione che “l’attrice era troppo affascinante” (G.P. Brunetta. Il cinema muto italiano). D’altra parte fu subito definita donna-gufo (forse perché rapace, si veda anche un vezzoso cappellino di piume che l’attrice indossa nel film. E poi abita nel Castello dei Gufi) o donna tigre (dal film successivo Tigre reale). Nasce la femme fatale, una nuova diva seconda forse (ma di poco) solo a Lyda Borrelli e a Francesca Bertini dalle quali si distingue però per una innata intelligenza moderna che le fa intuire subito le infinite potenzialità della ‘macchina cinema’ e anche delle sue personali potenzialità attoriali cercando continuamente nuovi personaggi e un rapporto più diretto e intenso con regista e operatore dei quali aveva compreso appieno l’importanza. E difatti non sono pochi i primi piani che ne esaltano l’intensità dello sguardo e delle espressioni del volto.

Il fuoco è ripartitoin tre capitoli: La favilla, La vampa, La cenere. Gli interpreti: LEI (Pina Menichelli), la poetessa illustre; LUI (Febo Mari), il pittore ignoto.
Un incontro casuale in un angolo nascosto tra una vegetazione stenta in riva a un lago, tra due anime diverse: quella di un animale naturalmente rapace e quella di un animale naturalmente preda. Lei scrive, Lui dipinge. Lei lo vede, Lui non vede lei. Inevitabile l’avvicinamento silenzioso di soppiatto, lo studio della preda. Poi Lei lo sorprende alle spalle ‘in un tramonto di fuoco descritto dalla poetessa, ritratto dal pittore’. Si conoscono, Lui le fa dono dello schizzo del tramonto infuocato che stava disegnando, poi Lei va via. Lui torna a casa e non fa che pensare a Lei (in un’ossessione che già si è impossessata di Lui) finché non torna al lago nella speranza di incontrarla di nuovo e così succede. Lui cerca di prenderla di sorpresa alle spalle mentre Lei sta scrivendo, pensando di ripetere il gioco ma Lei, voltandosi di scatto, gli urla ‘Sciocco villano! Che vi prende? Su via!’. Lui è sorpreso, deluso, il mento trema come a un bambino che sta per piangere. Lei se ne va arrabbiata e lui pensa disperato che non la rivedrà mai più. Quand’ecco che vede su un cespuglio un foglio lasciato da Lei: “Giungerò nel mistero e nelle tenebre al tuo nido, aspettata od inattesa. Io tenderò l’artiglio adunco e l’ala per ghermirti e levarti fino al cielo. Tu tenterai di farmi prigioniera ed il più forte vincerà la prova”. Non si può descrivere la sua felicitàperòLui ovviamente non comprende che accettare la ‘prova’ significa stabilire un patto. Ma, ma d’altra parte, Lui è… l’ingenuo.
Inizia l’attesa… Poi lei, una sera, a casa di lui improvvisamente ‘giunge nel mistero e nelle tenebre’ e tende l’artiglio. Appare come una divinità, forse non è umana, forse è uno spirito venuto chissà da dove. Lo provoca, in mille modi, tutti vincenti. Ha uno sguardo che attrae come un magnete e le espressioni sul suo viso sono mille e mille. È bellissima, in un modo strano, come se non le importasse; è presente, è lì eppure è lontana, inafferrabile. Lei dà uno sguardo in giro, è curiosa. Poi vede una lampada accesa su un tavolo e dice a Lui “L’amore che tu sai è come questa lampada: essa dà poca luce ad uno spazio breve e dura tutta una notte…”.

Frantuma la lampada sul tavolo e si alzano le fiamme, Lui si spaventa, Lei no, e dice con uno sguardo nero e appassionato, perduto “Bruciami, bruciami, bruciami l’anima…” abbracciata e già sciolta da quell’abbraccio. E lo trascina fuori da quella casa non prima che lui lasci un biglietto all’anziana madre “Mamma non cercarmi… sono felice, volo verso il sogno!”
‘E dai bagliori di questa vampa ch’ella accese, egli ebbe luce per la creazione’…
Il sogno durerà qualche giorno a casa di lei, il Castello dei Gufi. Decadente quanto basta per avere un’atmosfera coerente con il personaggio ‘fatale’ di lei. Il sogno finisce quando un cameriere le consegna di nascosto una lettera dove è scritto che il duca arriverà sabato mattina. Lei ha un soprassalto che sa nascondere bene, versa di nascosto il contenuto di una fialetta nel bicchiere del pittore (che durante quei giorni ha dipinto un meraviglioso ritratto sdraiato della poetessa che viene spedito ad una esibizione dove avrà un grande successo e ne scriveranno con enfasi anche i critici). È un sonnifero potente. Quando il pittore si risveglia Lei non c’è, non c’è più, al suo posto ci sono uomini che stanno provvedendo a traslocare la mobilia dal palazzo. Uno di loro consegna al poeta una busta da parte di Lei e al suo interno vi è un ‘pagate a vista al sig. Mario Alberti la somma di 30.000 lire’. Evidentemente il compenso per il quadro. Lui capisce. È distrutto, torna a casa e racconta la sua disperazione alla madre, piange sulla sua spalla. Tutto è ormai ‘cenere’.
Tempo dopo, la incontra per caso ad un evento affollato di gente e lei è sottobraccio ad un uomo agé evidentemente il duca. Lui le si avventa contro come un pazzo ed è questo che lei, con uno sguardo indifferente e pietoso e un’alzata di spalle, dice, per difendersi ‘Chi è costui? È pazzo!’. E Lui impazzisce davvero, ha una crisi nervosa, collassa, gli uomini presenti lo soccorrono e chiamano un’ambulanza che lo porta via.


Nel frattempo, compare sul volto di Lei una risata beffarda di trionfo: ha vinto il patto, la vittoria è sua! Ma piano piano il sorriso si spegne, il respiro si fa affannoso, l’espressione muta passando in pochi attimi dalla superbia al vuoto, all’inutilità di quella miserabile vittoria per finire in un piccolo ghigno, come un mal riuscito tentativo di sorridere ancora per il nulla.
Ma l’ultima scena è per Lui, il povero poeta illuso che un fotogramma blu ritrae come un uomo (finalmente consapevole nella follia), la barba incolta e lo sguardo davvero folle, sorridente nella demenza, seduto davanti a una finestra di ospedale mentre piega e modella delle figurine di carta di barchette, cavallini e altre forme disposte tutte intorno a sé. Un flebile refolo di vento muove altre figurine ritagliate di forma umana appese ad un filo davanti alla finestra. Poi non sorride più, si fa serio, ricorda, i lineamenti si allentano, e la testa lentamente si volta. L’ultimo sguardo ad occhi sbarrati è rivolto dritto dentro l’obiettivo verso gli spettatori della sua miseria.

Il regista
Giovanni Pastrone (1883–1959), regista, con lo pseudonimo di Piero Fosco gira Il fuoco. Questa pellicola è molto distante dall’altra, Cabiria, girata solo un anno prima nel 1914. Lasciato il set degli ‘effetti speciali’, passa alle riprese più intime e minimali sul piano attoriale che vede come protagonisti solo due attori.
Oltre che regista, Pastrone fu un abile imprenditore, fondatore e direttore della casa cinematografica torinese, Itala, che produsse tra i più noti film degli anni Dieci e Venti. Cabiria fu il primo kolossal della cinematografia ed ebbe una fortuna planetaria rendendo il regista famosissimo. Ad Hollywood il film fu molto studiato e sembra evidente l’ispirazione delle costruzioni monumentali della Babilonia nell’Episodio babilonese, appunto, del kolossal ‘Intolerance. La nascita di una nazione’, del regista D.W. Griffith, che data 1916.
Fu anche inventore di alcune macchine per il cinema la più famosa delle quali è il carrello, utilizzato tuttora in tutto il cinema. La pellicola de ‘Il fuoco’ è stata donata nel 1959 dal regista al Museo Nazionale del cinema di Torino che ha provveduto al restauro nel 1991 presso il Laboratorio Favro di Torino.
Il protagonista maschile
Febo Mari (1981-1939). Attore, sceneggiatore, regista. Nel 1915 dirige, per la Itala Film, L’emigrante, di cui è anche sceneggiatore. Tra i protagonisti: Ermete Zacconi, Valentina Frescaroli, Enrichetta Sabbatini, Amerigo Manzini (marito di Italia Almirante Manzini). Nel 1916 è tra i protagonisti di Tigre Reale, per la regia di G. Pastrone con lo pseudonimo di Piero Fosco, con la presenza di Pina Menichelli ormai affermata nel ruolo di femme fatale o donna-tigre. Oltre ai ruoli attoriali, Febo Mari è anche regista di film noti e molto apprezzati tra i quali Cenere (1916), dal libro di Grazie Deledda, di cui è anche interprete e sceneggiatore insieme a Eleonora Duse per la quale il film sarà l’unica esperienza cinematografica.
Fotografia
Segundo de Chomòn. Suoi gli ‘effetti speciali’ delle fiamme divampate dalla lampada spezzata.
Stefano Maccagno. Pianista, compositore, direttore d’orchestra, docente di improvvisazione, orchestrazione, composizione e orchestrazione di musica per immagini. È compositore ufficiale del Museo Nazionale del Cinema di Torino, per il quale ha composto e orchestrato le musiche per numerosi capolavori del cinema muto tra cui Cabiria, Tigre Reale, Maciste, The Whispering Chorus, Blood and Sand. Ha collaborato come compositore di colonne sonore con la “Cineteca Nazionale Italiana” di Milano. È stato pianista accompagnatore dei più grandi capolavori del cinema muto al Festival di Cannes, al festival internazionale ‘Il cinema ritrovato’ di Bologna, al Festival Lumiere di Lione alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, alla Cinémathèque Française e al Tokyo National Film Center. Su commissione del Teatro dell’Opera di Firenze ha scritto una composizione per grande orchestra sinfonica su musiche dei Led Zeppelin eseguita dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, da lui stesso diretta, presso il Teatro dell’Opera di Firenze. Ha da ultimo collaborato alla colonna sonora del film di Susanna Nicchiarelli Nico, 1988, registrando le musiche insieme all’attrice Trine Dyrholm (miglior attrice Berlinale 2017). È pianista ufficiale del restauro della pellicola Cabiria, che ha accompagnato al festival di Cannes e di Berlino oltre che a Belgrado, Budapest, Lione, Lussemburgo, Madrid, San Paolo, Seoul, Tokyo, Vancouver.
(dal sito https://iicchicago.esteri.it/it/gli_eventi/calendario/cine-concerto-il-fuoco-di-giovanni-pastrone-1915-lawrence)
(Antonietta Saracino)
(Le immagini presenti nell’articolo sono tratte da sequenze del film Il fuoco, di proprietà del Museo nazionale del cinema di Torino)
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