A Renzi resta solo l’ego della bilancia
- Postato il 7 luglio 2025
- Di Panorama
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C’è un caso umano che si aggira per l’Italia. Il suo nome è Matteo. Il suo cognome è Renzi. Bisognerà che prima o poi qualcuno faccia qualcosa per salvarlo dall’overdose di narcisismo che lo sta travolgendo: pensava di essere l’ago della bilancia, invece gli è rimasto solo l’ego della bilancia. Peso massimo del nulla mediatico. Compare a qualsiasi ora, in qualsiasi trasmissione, con conduttori che fingono di prenderlo sul serio, per spiegare al Paese come si conquista la fiducia degli italiani, lui che l’ha persa per sempre. Come si sta al governo, lui che non è stato capace di governare. Come si vincono le elezioni, lui che con il suo partitino veleggia da tempo sui bassifondi del 2 per cento. «Detesto l’ipocrisia», sentenzia a ogni occasione. E, in effetti, come contraddirlo? «Se perdo il referendum smetto di far politica», disse. E anche «se perdo il referendum vado via e non mi vedete più». Per essere uno che detesta l’ipocrisia, niente male. Una volta lo definivano Bullo, ma dal bullismo al ballismo, si sa, il passo è breve.
E allora tutti a lezioni di sincerità da Matteo Renzi, professore emerito in ballismo istituzionale. Che, poi, è un po’ come andare a lezione di velocità da un bradipo o a lezione di onestà da Arsenio Lupin. Queste due metafore sono di basso livello, lo so, ma le ho fatte per adeguarmi al soggetto in questione. Quando irruppe sulla scena politica almeno portava il vento della freschezza, battute fulminanti e il giubbotto da Fonzie, come quello esibito da Maria De Filippi. Lo chiamavano il Rottamatore. Ora invece lo chiamano il Rottamato, come s’intitola l’enciclopedico libro (724 pagine) che gli ha dedicato la giornalista del Fatto quotidiano Daniela Ranieri. Che tristezza, il Rottamato: la baldanza ha lasciato il passo alla tracotanza, la freschezza alla stanchezza, l’innovazione alla ripetizione. E le fulminanti battute di un tempo sono diventate bolse, spompate, ripetitive. Prevedibili come una polemica sul Jobs Act.
Lui, poveretto, peggiora il tutto perché non si risparmia. Abbarbicato a ogni seggiola che trova, quella da senatore innanzitutto, ma anche quella di ogni talk show, appare e ricompare senza sosta per promuovere un libro, per sostenere una causa (ovviamente persa), e sempre per impartire lezioni a chiunque. Al governo Meloni «senza spina dorsale», ad Antonio Tajani «ministro imbarazzante», ad Alessandro Giuli «ministro dell’ignoranza», ad Adolfo Urso «la cui cosa migliore è il nome». Spiega come fare la politica interna, spiega come fare la politica estera, spiega come battere le destre e persino come ci si comporta con i referendum, lui che sul referendum schiantò l’intera sua carriera politica. Poi, ovviamente, sempre un occhio di riguarda alla Lega: «È difficile passare dall’Intelligenza artificiale al Salvini naturale», ha detto. Come vi dicevo, pure la vena del battutista gli si è esaurita.
Una delle sue ultime magnifiche performance è stata in nome della libertà di stampa. È andato nel salottino chic di Lilli Gruber e ha sparato a palle incatenate contro le intercettazioni Paragon, autoproclamandosi paladino della libera informazione e difensore dei giornalisti oppressi. Proprio lui che, come ha fatto notare Daniela Ranieri, non ha mai smesso di querelare i cronisti, di attaccarli o di deriderli dal palco della Leopolda («gufi»), mentre presentava interrogazioni parlamentari contro le trasmissioni Rai (Report) colpevoli di dare notizie sul suo conto e mentre faceva di tutto per spegnere le voci critiche di ogni tipo (da Maurizio Belpietro a Ballarò). Lui che riceveva dai suoi collaboratori piani di propaganda e macchina del fango («merda su tutti») per punire i non allineati. Lui che ha preso fior di soldi dal dittatore saudita che la libertà dei giornalisti l’ha difesa facendoli a pezzi e mettendoli in una valigia. Lui, proprio lui, ora si presenta come il santo protettore della libertà di stampa. Non è forse ammirevole per il coraggio, oltre che per la faccia tosta?
Resta soltanto da capire che cosa voglia davvero questo «pelo superfluo della politica» (copyright Travaglio alla presentazione del libro della Ranieri), che ha trasformato la sua vita in una «cavalcata di cazzate», e che dopo aver promesso l’abbandono della scena («Non sono come i vecchi politici che si mettono il vinavil e restano attaccati alla poltrona»), minaccia invece di rimanere inchiodato lì, per chissà quanto e per chissà quale motivo. Che cosa sia oggi Renzi, infatti, è difficile dirlo: un conferenziere ben pagato, un globe-trotter della lobby, un piazzista di libri, un affarista internazionale o un senatore della Repubblica? In altre parole: quando si alza in Parlamento e interviene nel dibattito legislativo, sta facendo gli interessi dei contribuenti che lo pagano, o soltanto i suoi?
Perché è vero che Renzi non si è mai ritirato dalla politica, però la politica sembra ormai essersi ritirata da lui. Che una volta provò a governare addirittura il Paese. E ora si dimostra incapace di governare persino le balle che racconta.