Addio ai Viceré regionali, tramonta l’era di Zaia, De Luca ed Emiliano
- Postato il 27 aprile 2025
- Di Panorama
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Il soprannome varia con le latitudini, ma l’inedito senso di smarrimento è lo stesso. Il doge, lo sceriffo e il gladiatore. Il loro potere sembrava inscalfibile. Invece, sta per tramontare. Si voterà a ottobre, pare. La data esatta importa poco, però. Hanno lottato fino alla fine: interviste, provocazioni, ricorsi. Non è servito. Due mandati posson bastare.
Si dissolve così il muscolare regno di Michele Emiliano in Puglia. Cala il sipario sul macchiettistico impero di Vincenzo De Luca in Campania. Titoli di coda anche per l’incontrastato dominio di Luca Zaia in Veneto. Nessuno ha incarnato meglio dei tre deposti viceré la supremazia territoriale: geometrica e plebiscitaria. Scarse velleità nazionali. Totale dominio nei protettorati. Abdicare, d’un tratto, sembra un evento apocalittico.
Vedi Michele Emiliano: un decennio da governatore, un altro da sindaco di Bari. Vent’anni sulla breccia. E nessuna voglia di farsi da parte. Hic manebimus optime, diceva quel centurione, di fronte all’intenzione di trasferire il senato romano. E anche il gladiatore del Tavoliere sta divinamente nella sua Puglia, nonostante qualche inciampo a fine carriera.
Il più coreografico è la liaison professionale con la scoppiettante avvocatessa Nancy Dell’Olio, assoldata come ambasciatrice della regione nel mondo. Lo accusa di aver fatto il provolone, per giunta in assenza dell’agognato rinnovo contrattuale. Insomma, una specie di affaire Boccia-Sangiuliano alle cime di rapa. Oppure no. I contorni sfumano. Anche Emiliano sfuma. Poi le inchieste sui fedelissimi. Fino all’incredibile vanteria di aver chiesto protezione a una sorella del boss Capriati per Antonio Decaro, l’indiscusso erede: sindaco dopo di lui e ora candidato governatore.
«So’ tutti figli a me» ripete difatti, mentre il mandato sgocciola. «Ero il priore, sarò frate semplice» aggiunge il presidente pugliese con modestia. Armato di quest’inedita umiltà, è dunque pronto a «dare una mano al centrosinistra». Punta al pienone di preferenze alle prossime regionali, dove si candiderà come consigliere semplice. Si fa per dire, semplice. La sua lista civica, nome sulla scheda «Con», vanta decine di amministratori locali in tutta la regione. Insomma: il «modello Emiliano» perpetrato saecula saeculorum.
C’è di peggio. Alle elezioni potrebbe fronteggiare il suo illustre predecessore, pure lui impegnatissimo a evitare l’oblio: Nichi Vendola, già governatore nel decennio precedente. Anche lui aspirante consigliere quindi, con identiche e notevoli smanie.
L’indiscrezione corre da Bari Vecchia a Japigia: sarà capolista di Sinistra Italia, ribaldo partitino di cui è presidente. Insuperabile maestro della supercazzola aulica, Vendola spiega: «È una cosa che interroga la mia coscienza, perché non è solo il partito che me lo chiede. Sto ricevendo una sollecitazione continua per strada». Insomma: fosse per lui, vista la celeberrima austerità, declinerebbe volentieri. Ma lo evocano come Cassano ai bei tempi. Cosa può fare, se non cedere? «Resisto in tutti i modi alla proposta di candidatura che mi rivolgono i compagni della Puglia. Ma sono uomo di partito…». Insomma, pare che si immolerà.
Un ulteriore dettaglio aggiunge altro pathos all’irripetibile tornata: gli illustri contendenti si odiano. Quando hanno chiesto a Nichi se si rivede in coalizione con Michelone, lui non s’è trattenuto: «Avete una domanda di riserva?». Al momento, però, le uniche riserve sembrano loro: passati da centravanti a panchinari, da viceré a gregari, da indispensabili a ridondanti.
Sembra poca cosa rispetto allo psicodramma che vive lo sceriffo. De Luca spadroneggia in Campania dal 1993, quando fu eletto sindaco di Salerno per la prima volta. Seguirono tre riconferme e poi l’attuale decennio da governatore. Visto il piglio nordcoreano, gli hanno affibbiato un soprannome esotico: Vin Chen Zin. Lui, presidente-cabarettista, gongolava: «Siamo sulla linea di Kim II-sung».
Voleva ricandidarsi in eterno, contro ogni avversità. C’ha sperato fino alla definitiva sentenza della Consulta: impossibile. E adesso, dopo trentadue anni di sconsiderato strapotere, che si fa? Elly Schlein lo detesta. Ha coniato, in suo onore, il peggior anatema proferito in questi due anni passati alla guida del Nazareno: cacicco. Una medaglia, per Don Vincenzo.
Nonostante i 75 anni, è pronto a sfidare ogni avversità. È l’ultimo dei giapponesi. Come Hiroo Onoda, il tenente a riposo dell’esercito nipponico che combatté la Seconda guerra mondiale per altri 29 anni.
Punto primo. Non sarà lui? Allora dev’essere uno come lui. Un fedelissimo, per dirla eufemisticamente. Non certo un nome calato da Roma. Il prescelto, piuttosto, dev’essere «in grado di reggere e proseguire il programma avviato». Figurarsi. Elly vuole l’esatto contrario: assoluta discontinuità.
Ma la Campania è decisiva per un altro motivo: cercare di rinsaldare l’esile alleanza tra Schlein e Giuseppe Conte, il leader dei Cinque Stelle. Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli, è l’illustre esempio dell’episodica concordia. Urge bissare alla regione, con un candidato a lui graditissimo tra l’altro: l’ex presidente della Camera, Roberto Fico, già arcigrillino. Ossia: il politico più odiato dallo sceriffo.
Che smacco. «Non posso sostenere persone in discontinuità coi nostri programmi» minaccia De Luca. «Per esempio, se qualcuno mi dice che vuole chiudere il termovalorizzatore di Acerra, non posso essere d’accordo. Torniamo ai rifiuti in strada?». Ecco, sapete chi è quel qualcuno? Fico, ovviamente.
Così, Vin Chen Zin medita la mossa del cavallo. Lui non può correre per il terzo mandato? Bene, anzi male. Ma potrebbero candidarsi i sodali. E magari pure lui. A sfregio. Per sfasciare. Le sue tre liste, lascia trapelare, varrebbero il 15 per cento.
Per infrangere i sogni di gloria del campetto largo, lancerebbe perfino un deluchiano ortodosso alla presidenza. Anche se, come prevedibile, persino gli insospettabili cominciano a riposizionarsi. Vedi il consigliere regionale Franco Picarone. Fino al giorno prima della sentenza, gli era più devoto della stessa progenie. Adesso informa: «L’alleanza con i Cinque Stelle è buona e giusta».
Del resto, ovunque si respira aria da fine impero. Persino in Veneto. Zaia s’è battuto con audacia, sperando nell’improbabile miracolo. L’ha presa malissimo, ma ha appena cinquantasette anni. Nella politica italiana, a quell’età, si è ancora giovanotti.
A differenza dei due viceré meridionali, gode di trasversale stima. Il leader leghista, Matteo Salvini, ne soffre un po’ la rimarcata autonomia. Però, i voti del Veneto hanno fatto tenere la baracca al Nord.
Il doge di Conegliano governa da tre mandati, grazie alla deroga concessa da un diabolico cavillo. Vanta un consenso gigantesco. L’ultima volta, nel 2020, ha trionfato con uno stratosferico 76 per cento. Poi, alle scorse Europee, accade l’inaspettato: Fratelli d’Italia sbanca: 37 per cento.
Per questo, il partito di Giorgia Meloni sogna un suo candidato. Di fronte alla coriacea resistenza degli alleati, è disposta però a concedere continuità. In cambio, otterrà la candidatura per la Lombardia nel 2028. Sul prescelto, chiaramente, Zaia dovrà poggiare lo spadone: sarà quindi il segretario della Liga Veneta, Alberto Stefani, o il sindaco di Treviso, Mario Conte?
E cosa farà il Doge? Il sindaco di Venezia? Pochino, forse. Anche se sarebbe l’unica maniera per non allontanarsi dall’amatissima regione. O il presidente dell’Eni, magari? Troppa rappresentanza per un uomo d’azione come lui.
Allora, non resterebbe che Roma: un ministero, prima o poi.
Pure qui, intanto, si vedono i primi segni di cedimento. Il Carroccio ha già perso due consiglieri regionali, passati tra le fila meloniane: Marco Andreoli e Silvia Rizzotto. Altri tre sarebbero pronti a seguirli. Zaia ha così ricordato la sua profezia: «Cinque anni fa, quando li ho candidati in lista per le regionali, ho detto: “Negli ultimi sei mesi di mandato, qualcuno di voi se ne andrà”».
Molto più che un doge. Quasi un messia.