Al museo Stedelijk di Amsterdam ci si impegna sulle comunità emergenti e sulla decolonizzazione

  • Postato il 22 agosto 2025
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Nel cuore dello Stedelijk Museum di Amsterdam, il museo d’arte contemporanea più noto dei Paesi Bassi, esiste uno spazio che lavora silenziosamente per riformulare le logiche tradizionali del museo. Questo spazio si chiama Buro Stedelijk: una piattaforma curatoriale dedicata a pratiche artistiche emergenti, comunitarie e spesso marginalizzate, e che promuove forme di curatela basate sulla cura, la collaborazione e la decostruzione del sapere coloniale. Abbiamo intervistato Rita Ouédraogo, curatrice di Buro Stedelijk, per approfondire questa iniziativa e il suo ruolo fondamentale nell’immaginare nuovi futuri per questa e molte altre istituzioni culturali.

Intervista a Rita Ouédraogo: curatrice di Buro

Da quale idea nasce Buro Stedelijk e perché è importante decolonizzare il museo?
Buro Stedelijk nasce come spazio di sperimentazione all’interno della struttura dello Stedelijk Museum di arte contemporanea. Al contrario di un dipartimento tradizionale, è una piattaforma curatoriale che opera con una certa autonomia e con l’obiettivo di celebrare la comunità e incoraggiare la sperimentazione e l’arte che supera i confini attraverso una varietà di manifestazioni che sfidano le questioni (geo)politiche.

Che cosa significa per te “decolonizzare il museo”?
Significa prima di tutto riconoscere che il museo è intrinsecamente nato all’interno di strutture coloniali e patriarcali. Fin dalla loro fondazione nel XIX Secolo, i musei moderni sono stati strumenti di potere che hanno raccolto, classificato e mostrato il sapere secondo una logica eurocentrica e, spesso, violenta. I Paesi Bassi, come molti altri paesi occidentali, è un paese basato su una ricca storia e logiche coloniali. Il nostro lavoro è mettere in discussione queste logiche, creare spazio per narrazioni e pratiche diverse, mettendo in luce comunità’ oppresse, le cui storie sono ancora spesso marginalizzate e dimenticate. 

Chi sei e da quanto tempo lavori a Buro Stedelijk?
Dopo I miei studi in antropologia culturale, mi sono ritrovata a fare ricerca nel campo della cultura materiale, una disciplina emergente che si occupa degli aspetti visibili e concreti di una cultura, quali i manufatti urbani, gli utensili della vita quotidiana e delle attività produttive. Durante questi anni sono stata in grado di sviluppare il mio pensiero critico e avvicinarmi alla curatela e pratica artistica, scoprendo come l’arte possa essere uno strumento di trasformazione, guarigione e immaginazione politica. 

Buro Stedelijk ad Amsterdam secondo la sua curatrice

Raccontaci la nascita di Buro.
Buro Stedelijk è l’evoluzione del progetto SMBA (Stedelijk Museum Bureau Amsterdam), uno spazio satellite situato nel quartiere di Jordaan, precisamente in Rozenstraat, che dal 1993 al 2016 ha operato in dialogo con la città. Nel 2022 lo Stedelijk ha offerto uno spazio per continuare all’interno dei propri stessi muri, offrendo un’occasione per una riflessione su come mantenere una piattaforma critica e decentrata all’interno del museo stesso. Insieme a Azu Nwagbogu, abbiamo fondato la nuova visione di Buro Stedelijk. Anche se è fisicamente all’interno del museo, il nostro intento è quello di lavorare anche al di fuori di esso, in collaborazione con comunità e artisti che non si riconoscono nelle logiche museali tradizionali. Da quel momento, qualsiasi attività, che si tratti di mostre, conferenze, simposi, saggi o performance, è chiamata “manifestazioni”, in continuo cambiamento e divenire.

Come definiresti il tuo ruolo di curatrice all’interno di Buro Stedelijk?
Prima di tutto, per me la cura è un valore centrale: a Buro Stedelijk non curiamo solo mostre, ma anche relazioni, e vedo il mio ruolo come facilitatrice. Non sono qui per imporre una visione, ma per creare le condizioni per cui nuove idee artistiche e progetti possano emergere. Il mio ruolo è anche quello di proteggere lo spazio: creare un ambiente dove si possa osare, sperimentare, sbagliare. E soprattutto, dove ci sia tempo per soffermarsi e riflettere, cosa che spesso non accade nella societa’ di oggi. 

Qual è la sfida principale?
La sfida più grande, ma anche l’aspetto più entusiasmante, è dover continuamente negoziare e creare uno spazio in cui sia possibile sperimentare e provare cose nuove senza infrangere le regole del museo. E, allo stesso tempo, come possiamo mettere in discussione queste regole? Che funzione hanno realmente questi muri? O cosa possono permettersi e cosa no? E allo stesso tempo, dobbiamo anche chiederci: “D’accordo, ci sono alcune pratiche, opere d’arte e progetti che prosperano effettivamente in questi luoghi”. E molte altre che non lo fanno, e va bene così. Quindi, come possiamo accontentare entrambe le parti? O come possiamo capire di cosa ha bisogno un artista, un collaboratore, un creatore o un progetto e come possiamo essere d’aiuto in questo senso? Il ruolo di curatore è complesso e richiede un grande impegno e responsabilità’: si occupa, infatti, di mettere in contatto artisti fragili con un’istituzione.

E il segreto per riuscire a coinvolgere le persone nelle vostre iniziative?
Nella nostra filosofia, ogni collaboratore è visto come un contributore fondamentale, che contribuisce a plasmare l’essenza di Buro Stedelijk. Lavoriamo con molti incontri, in dialogo con artisti, attivisti, comunità, pedagogisti e ricercatori. Ogni progetto nasce dall’ascolto, dalle relazioni e da una fiducia costruita nel tempo. Cerchiamo di decentralizzare il potere curatoriale e di creare spazi basati sull’orizzontalità in cui le persone possano esprimersi con la propria esperienza, la propria storia e il proprio linguaggio. Facciamo il nostro meglio per rendere lo spazio in cui lavoriamo, ad esempio, accogliente e informale. 

Rita Ouedraogo
Rita Ouedraogo

Il museo fuori dal museo

Perché operare al di fuori del museo?
Perché molte persone non vogliono entrare all’interno del museo, spesso a causa di passate esperienze traumatiche legate alle istituzioni, nelle quali non si sono sentiti oppressi o non tollerati. L’architettura del museo stesso è escludente. I muri bianchi, il linguaggio accadmico, le gerarchie implicite. Andare fuori significa avvicinarsi, incontrare, imparare. Abbiamo collaborato ad esempio con parchi, nightclubs e altre istituzioni artistiche e scuole, i quali spazi ci permettono di rompere la logica dell’evento e di costruire pratiche più lente, più intime.

Che risvolti può portare tutto ciò?
Creare legami con iniziative al di fuori di Buro Stedelijk è fondamentale. È uno sforzo che richiede tempo, ma è l’unica maniera con la quale si può creare una vera e propria comunità di supporto, caratterizzata da un senso di appartenenza delle persone. Un esempio di azione esterna è la creazione, in occasione della commemorazione dell’abolizione della schiavitù nei Paesi Bassi, che si tiene ogni primo luglio, di una traiettoria artistica pubblica sui muri e le finestre dei palazzi del quartiere di Staatsliedenbuurt, ad Amsterdam. In questa “manifestazione“, i passanti potranno leggere le poesie della poetessa Babs Gons, con illustrazioni dell’artista e graphic designer Jeanine Van Berkel.

A cosa si riferisce il nome “manifestations”? Quale ti è rimasta particolarmente a cuore?
Le “manifestations” sono le iniziative pubbliche del Buro Stedelijk: mostre, eventi, incontri, performances ma anche saggi. Tutto ciò che facciamo si chiama “manifestation”. Il termine “manifestation” ci interessa perché implica qualcosa che emerge, si rivela, prende forma in pubblico. Presenta anche una dimensione spirituale, quasi rituale. Non si tratta solo di organizzazione, ma anche di manifestazione di qualcosa che prima non aveva spazio o visibilità.

Un esempio?
È difficile menzionare una manifestazione in particolare, perché mi appassionano tutte. Una delle più impressionanti è stata “Truth”, nella quale abbiamo riempito l’intero spazio di acqua e le persone potevano camminare all’interno di questa sorta di piscina, circondate dalle proiezioni sui muri della performance dell’artista e scultore Miles Greenberg. È una cosa che non succede spesso in un museo, non trovi?

Che messaggio vuoi lasciare ai giovani artisti, curatori e non solo?
Il museo non è neutro, ma può essere trasformato grazie al pensiero critico. C’è spazio per pratiche radicali, lente e fragili, basate sull’ascolto e la collaborazione. Anche la cura è una forma di potere alternativo e, soprattutto in questi tempi difficili, non possiamo permetterci di perdere la speranza: informarsi, leggere, creare relazioni è ciò che mi permette di andare avanti. Il mio lavoro presso Buro Stedelijk mi ha dimostrato che è possibile costruire comunità artistiche basate sulla fiducia, sull’ascolto e sull’opacità.

Linda Del Rosso

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Autore
Artribune

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