“Amici miei” alla prova della generazione Z

  • Postato il 22 agosto 2025
  • Di Il Foglio
  • 1 Visualizzazioni
“Amici miei” alla prova della generazione Z

Poco tempo fa mostrai “Amici miei” in classe a degli studenti universitari (quasi nessuno l’aveva visto): “E’ triste”, “non fa ridere”, “maschi bianchi che sessualizzano la donna”, oppure “giustifica la violenza” (per via degli schiaffoni in stazione). Insomma, il solito repertorio della Generazione Z. Confesso: non li condanno più, non li biasimo, e sarebbe troppo facile prenderli in giro. Anzi un po’ mi hanno contagiato. Hanno ragione come hanno ragione i vegani quando ti spiegano che la bistecca è un pezzo di cadavere. Tecnicamente ineccepibile, umanamente insopportabile. Certo, mi dispiace per loro: perdersi la grandezza delle acrobazie attoriali di Adolfo Celi per un paio di ideuzze woke mi sembra una grande ingiustizia, ma tant’è. L’altra sera, rivedendolo su RaiPlay, pensavo anch’io quanto fosse triste e deprimente quell’Italia, quella Firenze plumbea che sembra una città dell’Est (preferisco di gran lunga la Firenze dell’overtourism). Ogni generazione deve buttare via i giocattoli di quella precedente per poter crescere, però c’è una differenza cruciale: quando io incontravo un film vecchio di mezzo secolo, mi limitavo a pensare che fosse una gran rottura di palle. Che non avesse nulla da dirmi. Non sentivo nessun fervore inquisitorio, voglia di censura o condanna morale. Forse, se un film così vecchio riesce ancora a indignare qualcuno vuol dire che è ancora vivo.

Nel 1975, mentre insieme ad “Amici miei” uscivano “I Quaderni” di Gramsci e la politicizzazione di tutto cavalcava verso il climax della lotta armata, questo film diceva una cosa molto semplice: fregatene della lotta di classe, delle ideologie, di strutture e sovrastrutture. Le cose che contano per sopravvivere sono altre: l’amicizia, il cazzeggio puro, il gesto gratuito. Volendo possono essere molto più rivoluzionari. “Amici miei” era malinconico e liberatorio, burlesco e anarchico come solo Germi (che l’ha scritto) e Monicelli (che l’ha girato) sapevano essere. Nella fatidica “supercazzola” si specchiavano tutte quelle parole astratte e ubriache di ideologia, ormai svuotate di senso, trasformate in slogan, urlate nelle piazze, sussurrate nei covi che tormentavano il discorso pubblico. La supercazzola come un contrappunto al fatidico “blablabla” dell’Arbasino di “Un paese senza”, maestosa pietra tombale su quegli anni. Mi rendo conto che se uno pensa di convincere un ventenne col contesto storico-sociale ha già perso. Il fascino di un film evapora. Resta solo la sociologia spicciola. Meglio notare, semmai, che la supercazzola nel frattempo si è fatta sistema, furore d’ordinanza, soluzione linguistica standard. Come nel lessico della social justice. E’ debordata, permeando ogni dibattito, ogni talk-show, ogni post. Sarebbe il momento ideale per un altro “Amici miei”, scritto dalla generazione Z. Aspettiamo fiduciosi.

Continua a leggere...

Autore
Il Foglio

Potrebbero anche piacerti