«Anche i medici hanno paura»: Christian Brogna racconta la fragilità di chi opera sul cervello
- Postato il 23 ottobre 2025
- Di Panorama
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Il peso e la paura che precedono un intervento chirurgico non appartengono solo al paziente e ai suoi familiari. Anche il medico, e con lui tutto lo staff coinvolto, agisce a cavallo del sottile spartiacque tra paura e coraggio, tra responsabilità e fragilità. È da qui che nasce Awake, il romanzo autobiografico di Christian Brogna, neurochirurgo di fama internazionale, pubblicato da Rizzoli e scritto insieme a Claudia Zanella, attrice e scrittrice. Un libro che, ancora prima di arrivare in libreria il 21 ottobre, è andato esaurito in pre-ordine e in ristampa.
Si tratta di un racconto che per la prima volta ribalta la prospettiva, rivelando la dimensione più intima del chirurgo: i timori, la concentrazione prima di un intervento, la meditazione, l’allenamento fisico e mentale, la necessità di mantenere la mente lucida come un pilota di Formula 1 o un discesista sulla pista. Awake è la storia di un medico che sceglie di raccontare non solo la paura dei pazienti, ma anche la propria. E di come quella paura possa trasformarsi in consapevolezza e cura.
Dottor Brogna, lei scrive che il suo obiettivo non è solo rimuovere un tumore, ma custodire la persona nella sua interezza. In che modo questa visione ha cambiato la sua pratica clinica quotidiana?
Operare il cervello significa intervenire sulla sede dell’identità. È lì che abitano la memoria, il linguaggio, le emozioni, il senso dell’umorismo, la capacità di amare. Per questo ho sempre sentito che il mio compito non poteva essere solo tecnico: non basta rimuovere una lesione, bisogna proteggere ciò che rende una persona se stessa.
Questa consapevolezza ha trasformato il mio approccio alla neurochirurgia. La awake surgery — operare con il paziente sveglio — è nata proprio da questa esigenza: entrare in relazione con chi ho davanti, comprenderne i desideri, le paure, ciò che non può permettersi di perdere. Spesso sono proprio i pazienti a indicarmi la rotta: c’è chi mi dice “non mi tolga la memoria”, chi vuole continuare a scrivere, a dipingere, chi chiede solo di poter continuare a riconoscere i figli. Queste richieste guidano le mie mani più delle immagini radiologiche.
La chirurgia da svegli diventa allora un dialogo costante: mentre io intervengo, il paziente parla, disegna, suona. Attraverso il suo vissuto, io riesco a orientarmi.
E così, ogni intervento diventa non solo un gesto medico, ma un atto di custodia della persona nella sua interezza. Devo e voglio proteggere la loro identità.»
In Awake racconta anche le paure del medico, spesso trascurate. Qual è stata la sua più grande paura in sala operatoria e come l’ha trasformata in forza.
Della paura di noi medici non si parla mai. Come se tutti fossero legittimati ad averne — il paziente, i suoi familiari, i suoi amici — ma noi no. Come se il camice bianco fosse un’armatura che non si scalfisce. Ma non è così. Magari fosse così!
La grande paura di noi medici in sala operatoria è quella di fare un errore irreversibile che possa compromettere la vita di un paziente e, di riflesso, quella della sua famiglia. È una responsabilità enorme, che a volte pesa come un macigno sul cuore e sulla mente.
Col tempo, però, (e anche grazie alla meditazione) ho imparato a trasformare questa paura in una forza: un’attenzione ancora più profonda, una concentrazione totale, un rispetto autentico per chi ho davanti. Non è una paura paralizzante, ma una guida che mi spinge a essere meticoloso e presente in ogni gesto e decisione.
Nel libro racconta dell’intervento a Giorgio, un paziente che ha suonato il sassofono mentre lei operava. Quanto conta, nella awake surgery, la creatività dei pazienti nel guidarla dentro la complessità del cervello?
Il libro prende forma attorno a dieci ore decisive: l’intervento su Giorgio, un giovane sassofonista, che suona il suo inseparabile sax, mentre viene operato. L’intervento a Giorgio è uno degli esempi più emblematici di quanto la creatività del paziente sia fondamentale nella awake surgery. Quando il paziente suona il sassofono durante l’operazione, non è solo un gesto simbolico: diventa uno strumento di mappatura vivente. Chiedergli di suonare mi ha permesso di monitorare in tempo reale le aree coinvolte nelle sue capacità artistiche, cognitive, motorie, linguistiche, matematiche, aiutandomi a evitare danni che avrebbero potuto comprometterle.
In questo senso, la creatività del paziente non solo guida la mia mano, ma diventa parte attiva della cura stessa. È un dialogo unico e vivo, in cui il paziente non è un soggetto passivo, ma un compagno di viaggio, un collaboratore prezioso nel percorso di guarigione.
Dopo aver vissuto il coma a causa di una meningite, ha sperimentato in prima persona la fragilità della mente. Quanto questa esperienza ha modificato il suo rapporto con i pazienti?
Tre anni fa ho sperimentato in prima persona il terrore che si prova di fronte a una malattia grave, un terrore che prima potevo solo immaginare, ma che non avevo mai davvero vissuto.
Improvvisamente, il giorno del mio compleanno, per una meningite batterica, sono stato io a vivere quella fragilità. Sono sempre stato molto vicino ai miei pazienti, fin dai tempi della specializzazione, ma in quel momento ho capito cosa vuol dire vivere sospesi tra paura e speranza. E questa sensazione, adesso, dopo il mio coma, è ancora più chiara, e la porto con me e nel rapporto con il mio paziente, nel suo percorso di cura. Ora so cosa prova davvero e posso ascoltarlo in modo ancora più autentico.
Awake è scritto insieme a Claudia Zanella. Perché ha scelto di affidare la sua storia a una scrittura a quattro mani e cosa le ha dato questa collaborazione?
Io sono un medico, Claudia una scrittrice. Facciamo lavori profondamente diversi.
Senza di lei, questo libro non sarebbe mai esistito. Da solo avrei potuto scrivere un manuale scientifico, simile alle mie pubblicazioni. Ma Awake è un’altra cosa: è un saggio narrativo che ha il respiro del romanzo, anche se racconta una storia vera. Per renderla viva, serviva una scrittrice o uno scrittore.
In più Claudia è anche un’attrice: ha studiato in Accademia e ha la straordinaria capacità di entrare completamente nei personaggi. È strano dirlo, ma è riuscita a diventare me.
Ogni mattina veniva in sala operatoria, si vestiva da medico, si metteva accanto a me e ascoltava tutto quello che le raccontavo. Poi tornava a casa e trasformava quei frammenti in pagine cariche di emozioni.
La mia storia, la sua penna. E da questa unione è nato Awake.
Qual è lo stato di salute della sanità in Italia? Che cosa andrebbe migliorato?
Dopo essermi laureato e specializzato alla Sapienza di Roma, ho deciso di partire e cercare i “giganti”, i maestri migliori da cui poter imparare davvero. Ho lavorato in ospedali in Francia, Turchia, Brasile e per sette anni al King’s College Hospital di Londra. Questo percorso mi ha permesso di confrontare da vicino diversi modelli di sanità, di vedere approcci e mentalità differenti.
La sanità italiana è sostenuta ogni giorno da medici, infermieri, operatori sanitari che lavorano con amore, dedizione e spirito di sacrificio, spesso in condizioni davvero difficili. Abbiamo eccellenze straordinarie, tecnologie avanzate, professionisti altamente formati e università di medicina tra le migliori al mondo. Tornassi indietro farei di nuovo l’Università Sapienza, senza pensarci due volte! Ma è innegabile che il sistema sia sotto pressione. Mancano risorse, mancano medici e infermieri, mancano visioni a lungo termine che alimentino la motivazione degli operatori sanitari. Ma soprattutto manca il tempo. Tempo per ascoltare, per creare una relazione di fiducia, tempo per prendersi cura davvero della persona e non solo della sua malattia.