“Attenti al pollo, aumenta il rischio di morte per tumori più della carne rossa”: il nuovo studio e il parere dell’esperto
- Postato il 27 luglio 2025
- Salute
- Di Il Fatto Quotidiano
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Proposta come valida alternativa alla carne rossa, di fatto negli ultimi anni la carne di pollo sta scalando le classifiche dei consumi. In Italia, il consumo pro capite di pollame è aumentato dell’8,5% nell’ultimo decennio, passando da 11,7 kg agli attuali 12,7 kg. Una delle ragioni è che il pollame è in genere più conveniente e accessibile, la sua carne è considerata più leggera e salubre, il che la fa spesso preferire a chi si dedica al fitness. Ma uno studio italiano da poco pubblicato sembra rovesciare queste indicazioni, rilevando come la carne di pollo metta maggiormente più a rischio la salute delle persone rispetto al consumo di carne rossa. Più precisamente, il consumo settimanale di carne di pollo, anche al di sotto dei livelli raccomandati (massimo 200 g a settimana secondo la Sinu), aumenta il rischio di morte per tumori gastrointestinali.
La ricerca
Il dato emerge da uno studio condotto dall’Irccs Saverio de Bellis di Castellana Grotte, pubblicato con la prima firma della ricercatrice Caterina Bonfiglio. “Lo studio condotto su oltre 4.800 soggetti dimostra che il consumo di carne di pollo, anche se al di sotto di quello raccomandato dalla Società italiana di nutrizione umana, aumenta del 35% il rischio di morte per tumori gastrointestinali e del 100% se il consumo è oltre i 200 g a settimana”, ha dichiarato il direttore scientifico dell’istituto, il professor Gianluigi Giannelli. Che ha aggiunto: “Nello stesso studio abbiamo anche dimostrato che la carne rossa aumenta il rischio di morte per tumori gastrointestinali del 23% soltanto se consumata oltre i 350 grammi la settimana, confermandosi un alimento sano se consumato entro i limiti raccomandati”. In pratica, si rovesciano i termini indicati dalle linee guida internazionali che mettono sotto accusa principalmente proprio la carne rossa.
I grossi limiti dello studio
Lo studio però presenta alcuni limiti metodologici. Innanzitutto, si tratta di una ricerca osservazionale, ossia non può stabilire delle relazioni di causa-effetto; mentre i dati nutrizionali sono auto-dichiarati dai partecipanti, senza potere effettuare un controllo oggettivo su di essi. E non solo: “Quando si legge una ricerca che afferma, come in questo caso, che chi consuma più carne di pollo ha maggiori rischi, bisogna sempre chiedersi: ‘Com’è stata condotta l’indagine?’ – spiega al FattoQuotidiano.it il professor Pierluigi Rossi, docente di Scienza dell’Alimentazione all’Università di Siena, medico specialista in Igiene e Medicina Preventiva -. Di fatto, non è chiaro quali tipi di pollo sono stati consumati, di che qualità era, come era allevato l’animale, come è stata cotta la carne… E ancora: le persone del campione studiato seguivano una dieta equilibrata oppure no? Facevano attività fisica? Avevano uno stile di vita sedentario o dinamico?”.
Insomma, una ricerca che suscita più domande che risposte…
“Voglio essere ancora più chiaro: non si può dire che mangiare un certo tipo di carne, in sé, faccia bene o favorisca una migliore composizione corporea. Magari una data persona mangia carne di pollo o di manzo, ma anche verdure, cereali integrali, legumi, si muove tanto, dorme bene. Sono tutte variabili che influiscono. Bisogna saperle distinguere. Ecco perché dico che non esiste il cibo che fa bene in assoluto, così come non esiste il cibo che fa male in assoluto. Bisogna conoscere il contesto in cui si muove una persona, il suo metabolismo, il microbiota, che è diverso da ogni altro individuo”.
“Bisogna avere una visione di insieme”
Quindi è più un problema di metodo scientifico e di cultura alimentare.
“Esatto. Il punto è: noi ragioniamo ancora per alimenti isolati, quando invece nel nostro organismo non arrivano ‘alimenti’, ma nutrienti. Quando mangiamo, nello stomaco il cibo viene demolito in componenti più semplici: proteine, lipidi, carboidrati. Poi, nell’intestino tenue, grazie agli enzimi pancreatici e intestinali, questi vengono ulteriormente scomposti in aminoacidi, acidi grassi, zuccheri semplici. È lì che avviene la vera interazione tra cibo e corpo”.
Le proteine non sono tutte uguali
Quindi non basta sapere quante proteine contiene un alimento.
“No, perché le proteine non sono tutte uguali. Quello che conta davvero è il profilo amminoacidico. Una proteina può essere ‘povera’ o ‘ricca’ di aminoacidi essenziali, cioè quelli che il nostro corpo non è in grado di produrre da solo. E poi conta quanto di quella proteina riesci a utilizzare, assorbire, trasformare. Quindi serve una conoscenza molto più fine del cibo”.
Nella sua attività lei spesso usa l’espressione “fase anabolica” del cibo. Cosa intende?
“Noi oggi guardiamo quasi solo alla fase catabolica: quanta energia dà un cibo, ossia contiamo le calorie. Ma ci dimentichiamo della fase anabolica, cioè come quel cibo contribuisce alla sintesi e al rinnovamento delle strutture corporee, in particolare le proteine del nostro organismo. Le proteine, infatti, non servono solo per i muscoli, ma per gli enzimi, gli ormoni, il sistema immunitario. Per questo dico: la carne può essere utile, certo. Ma bisogna sapere quale carne, quali proteine e come sono state prodotte”.
Vale anche per il pollo, quindi.
“Certo. Un pollo allevato a terra, alimentato in modo naturale, senza eccessi di antibiotici, ha un profilo proteico e lipidico completamente diverso da quello di un pollo allevato intensivamente. Non è solo una questione etica: è scientifica”.
Come si cuoce fa la differenza
Lei ha anche fatto riferimento ai metodi di cottura.
“I metodi di cottura sono un altro elemento che cambia la situazione e, a seconda di quello utilizzato, può produrre Advanced Glycation End Products (AGEs), ossia composti associati a processi di invecchiamento e a diverse malattie croniche, come diabete, malattie cardiovascolari e disturbi neurodegenerativi. Questi composti si formano soprattutto con cotture ad alte temperature, come la griglia o la frittura, e non dipendono esclusivamente dal tipo di carne: anche una carne considerata ‘magra’ come il pollo può diventare potenzialmente dannosa se sottoposta a trattamenti termici aggressivi o prolungati”.
Torniamo alle criticità dei cibi processati, come per esempio i preparati a base di pollo, quelli industriali.
“I preparati trasformati, porzionati, spesso contengono additivi, conservanti, esaltatori di sapidità. Probabilmente partono da una materia prima legata agli allevamenti intensivi, alle assurde batterie di allevamento in cui crescono i polli. E oltretutto, vengono modificati. E a quel punto bisogna valutare l’impatto di tutte queste sostanze. Che è sicuramente nocivo, alterando in primis il nostro microbiota intestinale che ‘mangia’ ciò che mangiamo noi”.
Quindi: sì alle proteine, ma con intelligenza.
“Sì, ma anche con cultura. La gente ha paura delle proteine, o al contrario ne abusa senza criterio. In entrambi i casi manca la conoscenza. Oggi c’è una moda dei prodotti addizionati di proteine – barrette, yogurt, biscotti – ma se poi quelle proteine sono di scarsa qualità, a basso contenuto di aminoacidi essenziali, cosa stiamo facendo? Serve alfabetizzazione alimentare, non marketing”.
In conclusione?
“La carne di pollo può avere un ruolo nella dieta, ma tutto dipende dal contesto: chi la mangia, come la mangia, che tipo di pollo è, con quali altri alimenti è associata. È la sinfonia che conta, non il singolo strumento. E la nostra responsabilità, come cittadini e come consumatori, è imparare ad ascoltarla meglio”.
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