Basi NATO in Italia: dove sono, come funzionano e cosa rischiamo davvero
- Postato il 3 maggio 2025
- Di Panorama
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Quanto ne sappiamo veramente della Nato? Come funziona esattamente l’Alleanza militare atlantica? Soprattutto, dove si trovano le sue (molte) basi in Italia? Fino poco tempo fa, cioè con l’ingresso anche di Finlandia e Svezia sotto la presidenza Biden, la Nato – forte dei suoi 32 membri ufficiali – sembrava godere di ottima salute. C’era una sorta di certezza sul fatto che, in caso di «problemi» con la Russia o altri Paesi che avessero minacciato il nostro continente, gli Stati Uniti – in qualità di primus inter pares per mezzi e spese militari della Nato – avrebbero provveduto a schierare una forza poderosa in nostra difesa. Quella stessa forza da loro attrezzata sin dal 1949 per fare da contrappeso al Patto di Varsavia. In cambio dell’«ombrello» atlantista, ogni Stato membro deve versare il 2 per cento del proprio Pil nazionale per garantire un budget adeguato al mantenimento dello scudo. Questo perché l’alleanza militare riceve i fondi direttamente e indirettamente dai suoi membri attraverso contributi calcolati in base al reddito nazionale lordo. Roma, come tutti, paga questo «servizio».
Anche se, a dirla tutta, sulle spese pattuite siamo da sempre in difetto: solo pochi Paesi virtuosi rispettano davvero la quota del 2 per cento del Pil nazionale da destinare alle casse della Nato, un impegno preso dagli Stati membri nel 2006 al vertice di Riga e da allora divenuto consuetudine (ma non obbligo). Proprio di questo si è lamentato più volte Donald Trump. Con il suo ritorno alla Casa Bianca, infatti, nel bel mezzo della guerra di aggressione russa all’Ucraina, il presidente Usa ha dapprima rimesso in discussione la quota di partecipazione – «la Nato è obsoleta. I suoi membri si appoggiano sull’America, non pagano quello che dovrebbero. Ciascuno contribuisca con il 5 per cento del Pil» – e oggi mette in dubbio la stessa architettura atlantista. Trump considera le spese militari per difendere l’Europa come uno spreco di denaro pubblico, e ha deciso che l’America deve tagliare ogni sostegno militare al Vecchio continente. Non sappiamo dove questa politica condurrà, e se a farne le spese sarà davvero l’Europa.
Quello che invece si conosce – ma, anche qui, fino a un certo punto – è l’imponente presenza militare degli Stati Uniti e della Nato nella geografia atlantista. L’Italia, uno dei 12 Paesi fondatori dell’Alleanza, ha sempre svolto un ruolo centrale e ha mantenuto salda la propria fedeltà alla Nato. Come ha chiarito lo stesso presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «è dovere dell’Italia contribuirvi pienamente, perché, ci piaccia o no, la libertà ha un costo e quel costo, per uno Stato, è la capacità che ha di difendersi e l’affidabilità che dimostra nel quadro delle alleanze di cui fa parte». Nel 2002, il nostro Paese ha addirittura promosso l’avvicinamento della Russia alla Nato, istituendo il Nato-Russia Council nel corso del Vertice di Pratica di Mare. In breve, siamo insostituibili per l’Alleanza atlantica. Anche perché all’interno del nostro territorio sono presenti decine di strutture militari ufficiali, appartenenti sia alla Nato sia agli Stati Uniti, cui se ne affiancano altre non dichiarate. Ma determinare con precisione il numero delle basi non è semplice. Nel 2013 se ne contavano almeno 59, quasi tutte con presenza statunitense o ibrida.
Oggi quelle dichiarate sono salite a 120, una cifra considerevole anche se non tutte rientrano nella categoria delle «basi Nato» in senso stretto (la più grande del continente, destinata ad almeno dieci mila militari, si sta costruendo in Romania, sulla strategica costa del mar Nero). Ci sono almeno quattro diverse tipologie di strutture militari afferenti all’Alleanza atlantica: le basi concesse agli Stati Uniti in virtù di accordi bilaterali degli anni Cinquanta (in questi casi la sovranità resta italiana, ma il controllo operativo su mezzi e missioni è affidato alle forze armate statunitensi); le basi Nato propriamente dette, con una vera struttura di comando integrata; le basi italiane a disposizione della Nato (a seconda degli impegni assunti nell’ambito dell’Alleanza); ancora, installazioni condivise tra Italia, Stati Uniti e Nato, frutto della cooperazione multilaterale. Oltre a queste, è plausibile ritenere che esistano almeno altre 20 installazioni militari/residenziali statunitensi non ufficiali, coperte da segreto militare.
In ogni caso, ospitiamo alcune delle più importanti strutture atlantiste al mondo: a Napoli risiede uno dei due comandi generali delle forze integrate Nato, l’Allied Joint Force Command Naples (JFC Naples), che condivide questo onere/onore insieme a Brunssum (Olanda). La base si occupa del supporto alle unità navali statunitensi e del Comando alleato supremo in Europa. Tra personale militare e civile, sono presenti circa 10 mila persone. Coordina la logistica di 14 porti d’Italia, ospita un college e il Naval Computer and Telecommunications Station Naples (Ncts) che provvede a fornire dati e supporto alle telecomunicazioni statunitensi. Ad Aviano, in Friuli-Venezia Giulia, si trova la più grande base aerea americana del Mediterraneo, all’interno della quale opera una struttura chiave dell’Alleanza, perché qui sono presenti bombe atomiche di tipo B61-4.
Ma è probabilmente a Sigonella, in Sicilia, la più importante base operativa Nato: qui, nella piana di Catania, si trova l’aeroporto della Us Navy nel Mediterraneo, che funge da base di trasmissione dei dati necessari ai piani di volo e di attacco, e da qui decollano molti dei velivoli impiegati abitualmente in Medio Oriente e Nordafrica. Da Sigonella decollano anche i droni Global Hawk e gli RQ-4D della Nato nell’ambito delle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione. In Sicilia sono presenti anche: la Defense Logistics Agency (Dla), una base di rifornimento per tutto il Mediterraneo; e il Mobile User Objective System (Muos), un delicatissimo sistema di comunicazione satellitare che integra forze navali, aeree e terrestri degli Stati Uniti ovunque nel mondo.
A Vicenza, invece, ci sono Camp Ederle e Camp Del Din, dove quattromila tra soldati e personale gestiscono la sede dello United States Army Africa (Usaraf). Mentre a Camp Darby, a metà strada tra Pisa e il porto di Livorno, si estende una gigantesca base dell’esercito Usa che funge da deposito di munizioni e bombe (molti dei materiali finiti in Ucraina sono passati da qui): è il più grande deposito di armi al di fuori degli Stati Uniti, impiega circa duemila persone e conta ben 125 bunker sotterranei.
Ancora, a Poggio Renatico (in provincia di Ferrara), si trova il Deployable Air Command and Control Centre, dove viene monitorato lo spazio aereo e dove si acquartiera il personale addestrato per operazioni ed esercitazioni Nato; mentre il porto di Gaeta ospita la nave ammiraglia e il comando della VI flotta Usa.
Infine, si devono citare: Taranto, che accoglie il Nato Support and Procurement Agency (Nspa) del Southern Operational Centre (Soc), in pratica forze navali e anfibie che l’Italia mette a disposizione della Nato; La Spezia, che alloggia un importante centro ricerche tecnologiche della Nato; e poi Ghedi, in provincia di Brescia, che contiene un secondo deposito di bombe atomiche.
Tutte queste installazioni militari citate riflettono le dinamiche geopolitiche che interessano la prima linea di difesa e di attacco del cosiddetto «Occidente». Roma riveste insomma un ruolo strategico, poiché fornisce alcune tra le migliori e più armate strutture di supporto per le truppe statunitensi e atlantiche, tali da permettere un rapido schieramento di mezzi e uomini in un’area vastissima, che può estendersi dal Mediterraneo al Golfo di Aden, sotto la Penisola arabica, garantendo tempi di risposta tempestivi in scenari di guerra. Il rovescio della medaglia sono le perplessità in merito sia alla sovranità effettiva del nostro Paese sia ai potenziali rischi legati a un’escalation militare. Queste installazioni, infatti, potrebbero trasformarsi in bersagli in caso di conflitto. E se «la difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare», allora l’Italia è oltremodo esposta