Big Tech era al servizio di Biden: Google ammette le pressioni della Casa Bianca sulla censura online

  • Postato il 18 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Un’altra Big tech ha imboccato la via di Damasco, diventata meta di punta tra i magnati della Silicon Valley dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni statunitensi. Come Meta nei mesi scorsi, anche Alphabet, la società madre di Google e YouTube, ha ammesso di aver eliminato contenuti relativi alla pandemia e ai risultati delle elezioni Usa del 2020, in seguito a forti pressioni politiche provenienti dall’amministrazione democratica dell’allora presidente Joe Biden, anche quando i contenuti rimossi non violavano le regole della piattaforma.

La confessione, contenuta in una lettera inviata dai legali del colosso  al deputato repubblicano e presidente della Commissione giustizia, Jim Jordan, segue un’inchiesta pluriennale in merito alla censura online di contenuti di orientamento conservatore. La missiva è eloquente: «Alti funzionari dell’amministrazione Biden, compresi funzionari della Casa Bianca, hanno contattato ripetutamente Alphabet e fatto pressioni sulla società su determinati contenuti generati dagli utenti sulla pandemia di Covid-19 che non violavano le nostre policy», si legge nel testo firmato dal legale Daniel F. Donovan, che definisce «inaccettabile e sbagliato quando qualunque governo, compresa l’amministrazione Biden, cerca di imporre il modo in cui la società modera i contenuti, e l’azienda ha costantemente combattuto contro questi sforzi sulla base del Primo emendamento».

Come la società abbia lottato contro l’imbavagliamento imposto e in difesa della Costituzione non è dato sapere, tuttavia nella missiva inviata al Congresso si legge pure che YouTube ha «chiuso canali per aver ripetutamente violato le Community guidelines sulla regolarità delle elezioni e sul Covid tra 2023 e 2024», ma oggi le regole «permettono un più ampio range di contenuti» su questi temi e dunque, «riflettendo l’impegno dell’azienda per la libertà di espressione, YouTube fornirà l’opportunità ai creatori di tornare sulla piattaforma se l’azienda ha chiuso i loro account».

Alphabet ha quindi invitato gli utenti che aveva sbattuto fuori a tornare sulle piattaforme, dicendosi intenzionata a ripristinare parte del materiale eliminato. Che si tratti di un sincero ravvedimento o di un opportunistico cambio di atteggiamento, questa inversione a U è l’ennesima conferma della permeabilità delle piattaforme social alle pressioni politiche, oltre che del controllo e della manipolazione che possono esercitare su miliardi di utenti.

Tema che riguarda anche il ruolo delle Big Tech nel definire i confini della libertà di espressione, divenuto cruciale negli States (molto meno in Ue) in seguito alle rivelazioni di Mark Zuckerberg. Il patron di Meta (che controlla Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger), dopo la sconfitta dei democratici, l’anno scorso ha vuotato il sacco. In una lettera inviata alla Camera dei rappresentanti, ha ammesso di essere stato «sottoposto a pressioni» dal governo di Biden affinché censurasse i contenuti relativi al virus durante la pandemia, dicendosi «rammaricato» per la decisione dell’azienda di assecondare le richieste.

«Nel 2021 alti funzionari dell’amministrazione Biden, inclusa la Casa Bianca, hanno ripetutamente fatto pressione sui nostri team per mesi per censurare alcuni contenuti relativi al Covid-19, anche quelli di carattere umoristico o satirico, e hanno manifestato frustrazione verso i nostri team quando non siamo stati d’accordo», scriveva Zuckerberg. «Ritengo che la pressione del governo sia stata sbagliata e mi rammarico di non essere stati più espliciti al riguardo», aggiungeva, precisando di aver fatto alcune scelte in quella situazione «che oggi non rifaremmo».

Una conversione clamorosa, visto il ruolo di custode della verità contro le fake news assunto negli anni scorsi dalla piattaforma. In poco più di 12 mesi, tra il 2020 e il 2021, Facebook rimosse più di 20 milioni di contenuti. La mannaia non riguardò solo il Covid: a ottobre 2020, nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali di allora, Facebook e l’ex Twitter (ora X) applicarono restrizioni alla condivisione dello scoop del New York Post su Hunter Biden, figlio di Joe, e i suoi affari opachi con l’azienda ucraina Burisma.

L’apice del controllo governativo dem fu raggiunto però quando l’amministrazione Biden lanciò le vaccinazioni anti Covid. A dirlo, lo stesso Zuck conversando con Joe Rogan, conduttore del podcast più seguito del mondo, Joe Rogan Experience. «Ci hanno pressato molto forte per eliminare cose che, onestamente, erano vere. Ci hanno detto: tutto ciò che sostiene che i vaccini potrebbero avere effetti collaterali, dovete eliminarlo». Il ceo di Meta non si riferiva però solo a contenuti complottisti, con bislacche o estreme teorie sui vaccini. La Casa Bianca, infatti, spinse Facebook a censurare anche meme scherzosi. Senza dimenticare, ovviamente, la totale messa al bando della teoria della fuoriuscita del virus dal laboratorio di Wuhan. Ipotesi oggi considerata probabile.

Durante l’intervista con il blogger, l’ex giovane nerd si è spinto perfino a dire che a un certo punto il fact checking della sua azienda è diventato «qualcosa di simile a 1984», prendendo «una china scivolosa». Una sensibilità che, tuttavia, non gli impedì di obbedire agli ordini della Casa Bianca. Così come fece l’ex ceo di Twitter, Jack Dorsey. Prima di Zuckerberg, infatti, era stato Elon Musk a rivelare il persistente controllo governativo sulle piattaforme. A pochi mesi dall’acquisto del social X (all’epoca Twitter), nel dicembre del 2022, il magnate sudafricano desegretò una grossa tranche dei cosiddetti “Twitter files”, dai quali venne alla luce la censura non solo dei guai di Biden Jr, ma anche delle voci critiche circa la gestione pandemica. «Una nuova indagine sui Twitter files rivela che team di dipendenti di Twitter creano liste nere, impediscono ai tweet non graditi di essere di tendenza e limitano la visibilità di interi account o persino i trending topic: il tutto in segreto, senza informare gli utenti», scriveva a riguardo l’ex editorialista del New York Times, Bari Weiss.

Nella black list finì, per esempio, Jay Bhattacharya,  professore di medicina a  Stanford  e autore della Great Barrington declaration, documento pubblicato nell’ottobre 2020 che suggeriva una politica di protezione mirata per anziani e fragili e si opponeva a restrizioni di massa, come i lockdown per giovani e persone senza patologie pregresse. Anche la pagina Facebook legata al documento fu chiusa il giorno dopo la sua apertura, il 4 febbraio 2021: secondo i cosiddetti fact checker «violava gli standard della community». Per silenziare il luminare e le altre personalità scientifiche che avevano firmato il suo appello, si adoperò anche Anthony Fauci, immunologo,  ex consulente della Casa bianca e falco delle restrizioni pandemiche, per il quale le evidenze scientifiche del documento anti lockdown erano «pericolose». A confermare la cesura col passato, promessa fin dalla campagna elettorale da Trump, Bhattacharya nel novembre 2024 è stato scelto dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy, Jr. per guidare i National institutes of health.

Alphabet è quindi solo l’ultima Big tech a fare un (timido) mea culpa. Nella lettera inviata al Congresso, inoltre, la società ha lanciato una dura invettiva contro il Digital services act (Dsa) europeo, il regolamento Ue nato con la finalità di promuovere i diritti fondamentali degli utenti, nonché una concorrenza equa tra le piattaforme online, e «creare un ambiente digitale più sicuro e trasparente», ma che nei fatti dà alla Commissione Ue il potere di «moderare» i post in caso di «crisi». «Queste norme» scrive Alphabet, «impongono un fardello regolatorio sproporzionato alle aziende americane, e Alphabet ha espresso da tempo la sua preoccupazione per il rischio che il Dsa potrebbe porre alla libertà di espressione all’interno e all’esterno dell’Unione europea, in base al modo in cui certe norme potrebbero essere applicate».

Un legittimo timore, in nome della trasparenza e della libertà di espressione. Che Big tech ha riscoperto solo dopo la sconfitta dei democratici Usa. Meglio tardi che mai.

Autore
Panorama

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