Biocarburanti, come sono fatti e quali sono: la scelta per il futuro
- Postato il 21 giugno 2025
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In un’epoca in cui la sostenibilità è diventata una priorità globale, i biocarburanti rappresentano una delle soluzioni più promettenti per ridurre l’impatto ambientale dei trasporti e diminuire la dipendenza dai combustibili fossili. Derivati da materie prime di origine biologica, come piante, residui agricoli e rifiuti organici, i biocarburanti offrono un’alternativa rinnovabile ed ecologicamente più compatibile rispetto ai tradizionali carburanti fossili.
Tuttavia, dietro questa definizione si cela un mondo variegato fatto di diverse tipologie di combustibili, tecnologie di produzione e implicazioni ambientali ed economiche. In questo approfondimento esploreremo cosa sono i biocarburanti, come vengono prodotti e quali sono le principali varietà in uso oggi, con uno sguardo anche alle prospettive future di questo settore in continua evoluzione.
Cosa sono i biocarburanti e quali sono le materie prime
Per biocarburante si intende un combustibile liquido o gassoso prodotto da biomassa. A differenza dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale) che si sono formati in milioni di anni, i biocombustibili derivano da fonti rinnovabili. La loro classificazione generale si basa principalmente sulla generazione a cui appartengono, distinguendo tra biocarburanti di prima, seconda, terza e persino quarta generazione, ognuna con caratteristiche e materie prime specifiche.
La varietà di materie prime utilizzabili è vasta e in continua evoluzione. Tradizionalmente, le colture alimentari come mais, canna da zucchero e soia (biocarburanti di prima generazione) sono state le fonti principali. Tuttavia, per superare il dibattito “food vs. fuel”, la ricerca si è spostata su biomasse non alimentari, come residui agricoli e forestali (paglia, scarti legnosi), o piante dedicate non commestibili (come la Jatropha). Le microalghe rappresentano una frontiera promettente per la loro alta produttività e la capacità di crescere su terreni non arabili.
Quante tipologie esistono
I biocarburanti di prima generazione sono prodotti da colture alimentari come mais, canna da zucchero, soia e colza. Se da un lato hanno dimostrato la fattibilità tecnica della produzione di carburanti da biomassa, dall’altro hanno sollevato preoccupazioni significative. La competizione per l’uso del suolo con la produzione alimentare, l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e l’impatto sulla deforestazione per creare nuove aree coltivabili sono tra le critiche più aspre.
Per superare i limiti della prima generazione, i biocarburanti di seconda generazione si concentrano sull’utilizzo di materie prime non alimentari. Queste includono residui agricoli e forestali (paglia, stocchi di mais, scarti di potatura), biomasse lignocellulosiche (legno, miscanthus, switchgrass) e persino rifiuti organici. L’obiettivo è massimizzare l’efficienza nell’uso delle risorse, senza competere con la produzione alimentare. La sfida principale qui risiede nella complessità delle tecnologie di conversione, spesso più costose e meno mature rispetto a quelle di prima generazione.
I biocarburanti di terza generazione rappresentano una delle frontiere più affascinanti della ricerca, basandosi sull’utilizzo delle microalghe. Le microalghe sono organismi fotosintetici microscopici con un’impressionante capacità di produrre biomassa e lipidi (oli) in tempi brevi e su superfici ridotte. Non richiedono terreni arabili, possono crescere in acque reflue o salmastre e hanno un’elevata efficienza fotosintetica, rendendole potenzialmente molto più produttive per unità di superficie rispetto alle colture terrestri. Le sfide attuali riguardano i costi elevati di coltivazione e di estrazione, ma il potenziale a lungo termine è enorme.
Quelli di quarta generazione spingono ulteriormente i confini della sostenibilità, mirando non solo a ridurre le emissioni, ma a catturare e riutilizzare il carbonio già presente nell’atmosfera. Questi biocarburanti sono spesso basati su organismi geneticamente modificati (microalghe o piante) progettati per massimizzare l’assorbimento di CO2 o per produrre direttamente carburanti liquidi o gassosi con processi altamente efficienti che incorporano la cattura del carbonio. L’obiettivo è raggiungere una carbon negative footprint, trasformando i biocarburanti in strumenti attivi per la rimozione di gas serra dall’atmosfera.
Il processo di produzione
Il cuore della produzione di biocombustibili risiede nella complessa trasformazione della biomassa in combustibile utilizzabile. Questo percorso si diversifica notevolmente a seconda della materia prima di partenza e del biocarburante desiderato, un campo in continua evoluzione che spazia da metodi consolidati a innovazioni all’avanguardia.
Una delle categorie principali è quella dei processi biochimici, che sfruttano il potere di microrganismi o enzimi per scomporre la materia organica. Il processo più noto in questa famiglia è la fermentazione alcolica, la via principale per ottenere il bioetanolo. Qui, zuccheri semplici, abbondanti in colture come la canna da zucchero, il mais o la barbabietola, vengono convertiti in etanolo e anidride carbonica dall’azione di lieviti, tipicamente il saccharomyces cerevisiae, in un ambiente privo di ossigeno. Per le generazioni successive di biocarburanti, la sfida è estendere questo processo alla biomassa lignocellulosica, come paglia o scarti legnosi, che richiede complessi pre-trattamenti, come l’idrolisi enzimatica, per liberare gli zuccheri fermentabili.
Un altro processo biochimico fondamentale è la digestione anaerobica, dove batteri specializzati demoliscono la materia organica in assenza di ossigeno, generando biogas, una miscela ricca di metano. Questa tecnologia trova ampio impiego con rifiuti agricoli, liquami zootecnici e fanghi di depurazione, producendo anche un prezioso sottoprodotto, il digestato, utilizzato come fertilizzante. Il biogas può poi essere purificato a biometano per essere immesso nella rete del gas o utilizzato direttamente come carburante per veicoli.
Accanto ai metodi biologici, vi sono i processi chimici, che si affidano a reazioni dirette per convertire oli e grassi. La transesterificazione è il pilastro della produzione di biodiesel. In questa reazione, oli vegetali o grassi animali, costituiti da trigliceridi, reagiscono con un alcool (spesso metanolo) in presenza di un catalizzatore. Il risultato sono gli esteri metilici degli acidi grassi, ovvero il biodiesel, e un sottoprodotto utile, il glicerolo. Un’evoluzione di questo approccio è l’idrotrattamento, un processo più raffinato come l’Ecofining. Questo metodo utilizza l’idrogenazione per rimuovere l’ossigeno dagli oli e dai grassi, producendo idrocarburi parafinnici, noti come HVO (Hydrogenated Vegetable Oil) o “green diesel”. L’HVO presenta caratteristiche qualitative superiori al biodiesel tradizionale e può essere impiegato direttamente nei motori diesel senza necessità di modifiche.
Infine, i processi termochimici sfruttano il calore per scomporre la biomassa, e sono particolarmente efficaci per biomasse secche e lignocellulosiche. La gassificazione converte la biomassa in un gas combustibile, o syngas (principalmente monossido di carbonio e idrogeno), attraverso una reazione parziale di ossidazione a temperature elevate. Questo syngas può essere impiegato direttamente per produrre energia o, in un passo successivo, essere sintetizzato in biocarburanti liquidi come metanolo o diesel tramite la sintesi Fischer-Tropsch.
Un’altra tecnica termochimica è la pirolisi, che sottopone la biomassa a riscaldamento rapido in assenza totale di ossigeno. Questo genera un liquido denso chiamato bio-olio, insieme a gas non condensabili e un residuo solido, il biochar. Il bio-olio, pur necessitando di ulteriore raffinazione, è un promettente precursore per carburanti. Un metodo più recente, la liquefazione idrotermale (HTL), si distingue per la sua capacità di trattare biomasse umide, come microalghe o fanghi di depurazione, convertendole in bio-olio in presenza di acqua ad alte temperature e pressioni, eliminando la fase di pre-essiccazione.
In definitiva, i biocombustibili si configurano come un elemento cruciale, ma non esclusivo, nel vasto e complesso scenario della transizione energetica globale. Non rappresentano una soluzione universale a tutte le sfide energetiche e climatiche, ma il loro contributo alla riduzione delle emissioni di gas serra e alla diversificazione delle fonti di energia è innegabile, specialmente in settori difficilmente elettrificabili come l’aviazione e il trasporto pesante.