Bruce Springsteen: dietro le quinte dei sette album perduti e ritrovati

  • Postato il 7 maggio 2025
  • Di Panorama
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C’è una dark side dietro ogni artista: e questa volta non parliamo di dipendenze, depressioni o comportamenti sopra le righe, ma di una dark side artistica. Il lato oscuro della vena creativa fatto di canzoni e interi album che rimangono chiusi nei cassetti per anni, a volte per sempre. 

Una sorta di carriera parallela popolata da incertezze e ripensamenti dell’ultimo minuto, da capricci inspiegabili e contrasti con la casa discografica. Sono brani e dischi diventati nel corso del tempo l’oggetto del desiderio dei fan, disposti a tutto pur di mettere le mani su qualche registrazione clandestina, per ascoltare quello che è precluso al resto del mondo. 

Precluso, ma fino a un certo punto, perché spesso, magari dopo decenni, i cosiddetti lost album (gli album perduti) arrivano al pubblico in versione ufficiale. Nessuno, però, finora, aveva progettato un’operazione su larga scala come quella ideata da Bruce Springsteen: Tracks II – The Lost Albums (in uscita il 27 giugno, in formato 7 cd o 9 vinili). Il rocker del New Jersey si è chiuso per mesi in studio con un produttore, un ingegnere del suono ed il suo storico manager Jon Landau, e ha “svuotato i cassetti” mettendo insieme sette album inediti, incisi tra il 1983 e il 2018, per un totale di 83 canzoni mai sentite prima, svelando tutta la traiettoria del suo percorso artistico e allo stesso tempo della sua vita. Tra le gemme del cofanetto le “L.A. Garage Sessions”, ovvero il prezioso anello di congiunzione tra le atmosfere acustiche dell’album Nebraska e il roboante rock da stadio del best seller Born in the U.S.A.. E poi, ancora, Faithless, colonna sonora di un film mai uscito nelle sale, il viaggio al centro del country nei pezzi di Somewhere North Of Nashville, le storie ambientate al confine tra gli Stati Uniti e il Messico di Inyo e le atmosfere noir-orchestrali di Twilight Hours. 

Insomma, un tesoro nascosto. «La possibilità di incidere in casa ogni volta che ne avevo voglia mi ha permesso di esplorare una vasta gamma di direzioni musicali diverse. Ho suonato questa musica per me stesso e per alcuni amici intimi per anni. Sono felice che ora possiate finalmente ascoltarla. Spero vi piaccia» ha detto Springsteen. Ma al di là degli aspetti promozionali, la storia degli album perduti di Springsteen e degli altri artisti di cui parleremo nelle prossime righe, induce a una riflessione su cos’era e che cosa è diventata la musica. Quest’era di canzonette usa e getta, in cui ogni sibilo nel microfono, corretto con abbondanti dosi di auto-tune, viene dato in pasto alle piattaforme streaming tanto per fare numero, confligge  rumorosamente con la storia e la genesi degli album perduti e racconta un altro tempo e un altro modo di essere artisti. Il rocker di Born in the U.S.A., Prince, Neil Young o David Bowie non sfornavano pezzi e album tanto per esserci. Provavano, sperimentavano, si confrontavano o con i direttori artistici delle case discografiche e solo se tutti i pianeti erano allineati pubblicavano quello che avevano inciso. La priorità non era esserci a tutti costi per contare i clic e i like, anche perché i like non esistevano, ma invece esistevano le copie vendute: 30 milioni per Born in the U.S.A., oltre venti per Purple Rain di Prince, dieci per Let’s dance di David Bowie. 

A proposito del Duca Bianco: nel 2000 ebbe l’idea di un disco a sorpresa, registrato in soli nove giorni, intitolato Toy e ispirato a vecchie canzoni mai uscite e scritte tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. La reazione della casa discografica fu a dir poco tiepida e il disco non venne pubblicato diventando così un album fantasma. Bowie la prese malissimo, ma con il suo proverbiale aplomb, e come reazione, si chiuse in studio per incidere un nuovo disco di canzoni inedite. Toy è arrivato al pubblico solo nel 2021, e si è rivelato un disco bellissimo, per dimostrare, purtroppo post mortem, che il Duca Bianco aveva pienamente ragione.  

Ci sono storie misteriose dietro gli album perduti: la più intrigante è sicuramente quella di Camille, un intero album inciso da Prince nel 1986 alterando la velocità di registrazione della voce in modo da far sembrare che a cantare non fosse l’autore di Purple Rain ma una donna. Non solo: Prince disse che non sarebbe apparso sulla copertina del vinile e che non avrebbe mai ammesso di essere l’autore di quelle canzoni. Risultato? Mentre il disco era in stampa, l’uscita venne sospesa a tempo indeterminato. 

Se quella degli album perduti fosse una competizione, vincerebbe a mani basse Neil Young, il campione assoluto del genere. Nei soli anni Settanta ha pubblicato nove dischi ufficiali, praticamente un disco all’anno. Una media da record, se non fosse che negli ultimi tempi sono emersi quattro “lost album”, registrati tutti negli anni Settanta, e tutti di un certo spessore artistico: Hitchiker, Chrome Dreams, Homegrown e Ocean Countryside. Sono oggetti d’arte mitici gli album perduti che accendono la fantasia dei musicofili, ma anche degli scrittori, come l’inglese Daniel Rachel, che nel libro The Lost Album Of The Beatles (Octopus Publishing Group) compila una lista di canzoni per un immaginario disco d’addio dei quattro di Liverpool, mettendo insieme provini lasciati a metà, lati B di 45 giri dimenticati, e canzoni soliste di Paul, John, Ringo e George. Una psichedelica e contemplativa visione di ciò che sarebbe potuto essere ma non è mai stato. 

Autore
Panorama

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