Cantarini, dalla provincia sfidò le star della città

  • Postato il 20 giugno 2025
  • Di Panorama
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C’era una volta un pittore di provincia che volle sfidare il maggiore dei pittori di città. L’avventura breve e folgorante di Simone Cantarini detto il Pesarese (1612-1648), pittore fra i più talentuosi nel corso di un’epoca che di artisti dotati ne ha avuti come poche altre, potrebbe essere introdotta, a seguire il racconto dello storico seicentesco Carlo Cesare Malvasia, come una favola di altri tempi, di quelle che però non finiscono col «vissero felici e contenti». 

Il pittore di città è Guido Reni, che da Bologna indicava la direzione a un’intera Europa pittorica nel segno di un classicismo timorato di Dio, elevatissimo nella nitidezza espressiva, per il quale veniva considerato un redivivo Raffaello. Simone lo scopre ragazzino attraverso i capolavori dei primi anni Venti lasciati a Fano (l’Annunciazione, la Consegna delle chiavi), lo segue nella sua scuola bolognese per potere essere prima talmente simile da confondersi con lui, poi per superarlo, affidandosi a un carattere ambizioso e sparagnino, da giovane arrembante, che male calza i panni dell’attendente pretesi dal non più giovane maestro. Reni, ripreso da Cantarini in un ispirato ritratto proprio quando la tensione fra i due doveva essere in procinto di esplodere (c.1637), è però ancora troppo venerato perché possa essere scalzato dal recalcitrante allievo, si limita a proporgli che diventi il suo incisore. 

Accolta con disprezzo l’offerta, Simone esilia volontariamente, forse a Roma, dove poco avrebbe combinato al di fuori dei rapporti artistici che intrattiene coi caravaggeschi. Quando però il «re» muore (1642), il «principe» ripudiato torna a Bologna per prendere finalmente il suo posto, attorniandosi anche lui di seguaci che ne osservano rigorosamente il magistero come Flaminio Torri, Lorenzo Pasinelli, Giulio Cesare Milani. È gloria che dura poco, Cantarini muore presto, a 36 anni, in circostanze vaghe, a Verona dove si era rifugiato dopo un’esperienza disastrosa presso la corte del duca di Mantova anche per via della sua congenita irriverenza. A Simone Cantarini, quasi trent’anni dopo le fondamentali mostre di Bologna e Pesaro curate da Andrea Emiliani, la Galleria nazionale delle Marche di Urbino dedica una mostra monografica, in collaborazione con la Galleria nazionale di arte antica di Roma, comprendente una cinquantina di opere (a cura di Luigi Gallo, Anna Maria Ambrosini Massari e Yuri Primarosa, fino al prossimo 12 ottobre). 

Se Reni veniva ammirato per l’impeccabilità di anatomie e composizioni, oltre che per la capacità ineguagliabile d’istigare a venerazione quando elaborava immagini sacre, Cantarini sviluppa del maestro la vena romantica che si nasconde dietro la grazia delle forme. Cantarini è disposto anche ad agitare la materia «alla veneziana» o alla nordica europea, uscendo quindi dai binari dell’ortodossia perseguita dall’accademismo carracciano che pure non manca di ossequiare: Cantarini condivide almeno in parte il percorso «dal vero al vivo» con cui gli stranieri in special modo stavano rigenerando il naturalismo caravaggesco. È giustificata, in questo senso, la presenza in mostra del San Giovannino di Camerino, c.1630, di Valentin de Boulogne, artista che con Cantarini condivideva la giovanile baldanza. E godevano entrambi dell’appoggio di un porporato Barberini: Antonio Jr., governante pontificio in Umbria, sosteneva il marchigiano Cantarini; Francesco, assistente dello zio Urbano VIII, sosteneva Valentin. 

Ciò che lo spirituale Reni porta a ordine e congela nella sua voglia di assoluto viene dal più leggiadro Cantarini riportato a un alito di vita. Sfrutta al meglio la mobilità del colore, con inserti anche imprevedibili di tonalità preziose, che si addensano integralmente sui panneggi (formidabile è lo sfoggio di lapislazzulo puro nella Sacra Famiglia Colonna, vero protagonista del dipinto). Con una certa frequenza di ritocchi, inoltre,  aggiunge sulla pasta pittorica fremito a fremito, riesce a trasmettere pienamente «affetti», come allora si diceva. La vicenda artistica di Cantarini non può essere però risolta nel solo rapporto di amore-odio con Reni, in fondo consumatosi nel giro di un quinquennio, avendo avuto almeno un precedente fondamentale. Se certe attitudini di Cantarini sono già riscontrabili nella precoce Adorazione dei Magi della Quadreria Magnani, recentemente ricondotta su base documentale agli ultimi anni Venti, quindi ben prima dell’apostolato dietro Reni, vuol dire che nella sensibilità pittorica di Simone c’è altro di decisivo oltre Bologna. Questo altro è in primo luogo un artista che avrebbe potuto essere meglio rappresentato in mostra, Claudio Ridolfi. Nativo di Verona, Ridolfi lavorò a Venezia, vicino a Paolo Veronese, prima di trasferirsi a Urbino, dove si adegua alla soffuse dolcezze di Federico Barocci.  

È guardando a Ridolfi e, attraverso di lui, a Barocci, che Cantarini scopre una vocazione venezianeggiante non smentita a Bologna, ma solo dirottata sul modello imperante per renderlo più consono al piacere per l’emozione che l’epoca barocca si sta accingendo a esaltare. 

Qualche opera in mostra da segnalare, oltre le già citate. L’addolcita Pittura di San Marino è una delle varianti dello stesso soggetto, appartenente a una fortunata serie di allegorie di arti e scienze, di cui la mia, già di proprietà Hercolani, è versione in più diretta relazione col disegno preparatorio di Rio de Janeiro, facendo da «sorella» della Madonna nella Sacra Famiglia del Prado. La Madonna della Rosa e la Madonna del Bambino dalla mano baciata sono invenzioni che nel mercato collezionistico dell’epoca rivaleggiano con i più asettici soggetti mariani di Reni, cercando il perfetto equilibrio fra sodezza classica delle forme, ombreggiature post-caravaggesche alla Giusto Fiammingo e un sentimentalismo cromatico che in qualche occasione ricorda analoghe propensioni della pittura genovese. Per quanto psicologicamente acuta, specie nell’Antonio Barberini Jr. e nella Coppia con rosario, la ritrattistica di Cantarini mantiene ancora un piede nel manierismo ridolfiano se non ancora prima, riconoscendo debito a Lotto, così come succede anche in certe tipologie di santi e pensatori a mezza figura (Sant’Andrea dagli Uffizi). Infine l’Erminia tra i pastori di Urbino, qualora se ne dovesse accettare l’attribuzione, testimonierebbe dello scadimento della maniera di Cantarini nel corso dei suoi ultimi anni, con echi di un’altra figura a cui il pesarese aveva guardato nella produzione precedente, il corregionale Giovan Francesco Guerrieri.

Autore
Panorama

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