Chi è Abbas Araghchi, il ministro iraniano che parla con gli Usa: sta a lui provare a ricucire i rapporti tra Teheran e Trump
- Postato il 21 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Se Iran e Stati Uniti hanno rotto il silenzio, o poco più, che durava dall’8 maggio 2018, quando Trump decise di uscire unilateralmente dal trattato sul nucleare iraniano, è anche merito suo. In questi anni a guidare la diplomazia iraniana, dopo la rottura tra l’amministrazione americana e il dialogante esecutivo Rouhani, è stato l’ultraconservatore Hossein Amir-Abdollahian, espressione del governo principalista di Ebrahim Raisi. Entrambi, però, hanno perso la vita nell’incidente in elicottero del maggio 2024 e, dopo un periodo di transizione, a Teheran sono tornati a governare, non senza sorpresa, i riformisti guidati da Masoud Pezeshkian. Ed è così che Abbas Araghchi, il nuovo capo degli Esteri della Repubblica Islamica, ha raccolto un’eredità lasciata chiusa nelle cantine del ministero per oltre sei anni: la strategia del dialogo con l’Occidente e con l’arcinemico americano che fu il marchio di fabbrica di Javad Zarif. Oggi, se tra Washington e Teheran si è riaperto un canale, nonostante la presenza di Donald Trump e uno Stato di Israele sempre più aggressivo, è anche grazie all’opera diplomatica di Araghchi.
È lui ad avere l’incarico di parlare con Il Grande Satana, l’entità da sconfiggere e dalla quale difendersi. E pensare che il percorso di Araghchi, 61enne originario della capitale, non è caratterizzato solo dalla diplomazia e da ruoli all’interno di esecutivi dialoganti. Per nove anni, dal 1979 al 1988, a giacca e cravatta ha preferito la mimetica, inquadrato nelle Guardie della Rivoluzione (Irgc). Solo dieci anni dopo, nel 1999, iniziano gli incarichi come ambasciatore, prima in Finlandia e poi in Giappone. Il primo ruolo di rilievo a Teheran lo avrà con un esecutivo ultraconservatore come quello di Mahmud Ahmadinejad, come portavoce del Ministero degli Esteri.
Gli Stati Uniti, però, sembrano essere nel suo destino, tanto che è sempre lui, durante il governo Rouhani, a tenere i contatti con Washington nell’ambito del negoziato che porterà all’accordo 5+1 Jcpoa siglato durante l’amministrazione Obama. Un accordo definito da Trump, che ne raccoglierà il testimone alla Casa Bianca, “il peggiore della storia”. E quando il tycoon deciderà di uscirne unilateralmente, verrà chiesto di nuovo ad Araghchi di far sì che la situazione non deflagri e che si mantengano rapporti con gli altri Paesi firmatari (Russia, Francia, Regno Unito, Cina, Germania e Unione europea). Uno spiraglio per ridare slancio all’intesa si era aperto con l’arrivo di Joe Biden nello Studio Ovale, ma a dispetto delle dichiarazioni d’intenti su una nuova apertura statunitense, quel processo non è mai stato veramente avviato, fino alla decisione insindacabile dell’ayatollah Khamenei di definirlo “impraticabile“.
La nuova sfida per Araghchi, oggi, si chiama di nuovo Donald Trump. Dopo una fase interlocutoria, nelle scorse settimane era sembrato che anche da parte del tycoon ci fosse la volontà di mettersi al tavolo e discutere un nuovo accordo che permettesse a Washington di non interrompere quel disimpegno dal Medio Oriente promesso già durante il primo mandato trumpiano. Il banco è saltato, però, con l’attacco di Israele. E anche stavolta toccherà ad Araghchi provare a ricucire lo strappo.
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