Clan della Valle del Neto, l’inchiesta partì da una segnalazione del FBI

  • Postato il 26 dicembre 2025
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Clan della Valle del Neto, l’inchiesta partì da una segnalazione del FBI

Depositati i motivi della sentenza contro il clan della Valle del Neto, l’inchiesta scaturita da una nota del FBI


ROCCA DI NETO – «Ogni fine mese bisogna pagare». Pietro Corigliano, boss della Valle del Neto, lo avrebbe detto chiaramente all’imprenditrice Carmela Sanguedolce, titolare della nota clinica urologica Romolo Hospital di Rocca di Neto. Sembra essere questo il senso di quel «piano criminoso», che prevedeva la «richiesta di somme di denaro in cambio di protezione», al centro del processo alla cosca che dalla Valle del Neto avrebbe allungato i suoi tentacoli fino a Manhattan. La «colorazione mafiosa» emerge sia dalle azioni intimidatorie, anche eclatanti, talvolta compiute con ordigni esplosivi, che dal «chiaro clima di soggezione» imposta alle vittime. Il Tribunale penale di Crotone ha appena depositato le motivazioni della sentenza con cui ha disposto, nel settembre scorso, 14 condanne e 8 assoluzioni.

LA SENTENZA

La pena più alta è quella per il presunto boss Pietro Corigliano, condannato a 19 anni e 6 mesi di reclusione. Spicca anche la condanna a 14 anni e 6 mesi per Domenico Megna, boss di Papanice e storico alleato del clan di Rocca di Neto. Tra le assoluzioni quella per il cantante neomelodico Salvatore Benincasa, accusato di reati in materia di armi. Per lui il pm Pasquale Mandolfino chiedeva 5 anni e 5 mesi. Cade l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Viene avvalorato l’impianto accusatorio secondo cui Pietro Corigliano sarebbe stato il vertice della ‘ndrina, indicava gli obiettivi delle estorsioni e ordinava l’approvvigionamento di armi.  Regge, in buona sostanza, l’impianto accusatorio della Dda di Catanzaro. Vediamo perché.

LA GENESI

Tutto parte nel marzo 2020 in seguito a una segnalazione del FBI di New York secondo cui Teodoro Matozzo, legato a famiglie mafiose radicate in America come i Colombo e i Gambino, si avvaleva di alcuni calabresi come manovalanza per estorsioni, gioco d’azzardo e traffico di preziosi. In questo contesto, come ha spiegato in aula un investigatore della polizia di Stato, il FBI segnalava anche la presenza negli Usa  di Ernesto Toscano, nipote di Pietro Corigliano. Sono così scattate le intercettazioni sui Corigliano. Ed è subito balzato all’attenzione degli inquirenti il ruolo di Pietro Corigliano all’interno della cosca egemone nella Valle del Neto. Il teste ha anche ripercorso le rivelazioni del pentito Francesco Oliverio, che, oltre a delineare l’organigramma del clan, ha parlato del riciclaggio svolto negli anni a New York individuando come “elemento di punta”, in questo contesto, Antonio Iona.

LE ESTORSIONI

L’inchiesta avrebbe accertato l’operatività della cosca nella Valle del Neto. Tra le vittime i titolari della clinica Romolo Hospital, costretti a versare un pizzo mensile di duemila euro. Le mazzette nelle intercettazioni erano mascherate sotto forma di cornetti da consegnare in quanto un gruppo di dipendenti della clinica avrebbe avvisato gli esattori del clan quando appunto cornetti e caffè erano “disponibili”. Dal processo sono emerse le responsabilità di Pietro Corigliano quale titolare del bar, della moglie Patrizia Cundari che riceveva gli ordini, dei cugini omonimi Luigi Corigliano e degli altri componenti dell’associazione mafiosa quali partecipanti alla ripartizione dei proventi.

TESTIMONIANZA SOFFERTA

Sofferta la testimonianza dell’imprenditrice Carmela Sanguedolce che, pur negando di aver ricevuto personalmente pressioni, ha ammesso di aver riferito ai suoi collaboratori, qualora vi fossero state richieste estorsive da parte della criminalità organizzata locale, di assecondarle. La sua tesi, confermata in aula, è che «se vi è qualche prestazione di favore, essa è il frutto di una interlocuzione diretta con il personale. Ovviamente – ha precisato – ciò implica che le eventuali ricadute economiche gravano sulla azienda e quindi su di me». Questa «situazione» le ha causato «enorme turbamento». «Sono una persona – ha aggiunto l’imprenditrice – che ha incentrato il suo stile di vita sull’onestà e sul lavoro. Pagare il pizzo, nonostante ciò fosse profondamente ingiusto, mi dava tranquillità. Vivo da sola, ho figli e avverto una forte apprensione. Tanto è vero che è mia intenzione aumentare i presidi di sicurezza».

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I CORNETTI

Riesaminata, la donna ha poi ammesso di aver incontrato una sola volta Pietro Corigliano, presentatogli da un suo dipendente. Nell’unica occasione in cui lo ricevette, le avrebbe detto che “… ogni fine mese bisognava pagare …”. Allora, la donna, dopo aver consultato il ragioniere dell’azienda che le riferisce che i Corigliano al denaro avevano un bar, avrebbe assecondato la prassi di ordinare ogni fine mese dei cornetti. «All’arrivo del dipendente del bar, la donna metteva il denaro in una busta, la consegnava al ragioniere e il ragioniere in sala mensa la faceva recapitare al cameriere del bar», è la ricostruzione del Tribunale. La donna non aveva in prima persona ideato l’escamotage della consegna dei cornetti strategica, ma le era stato suggerito dal ragioniere.

IL NEOMELODICO

Dalle motivazioni della sentenza si comprende perché, sia pure con formula dubitativa, i giudici hanno assolto il cantante neomelodico Salvatore Benincasa, che era finito nei guai per due episodi di occultamento di fucili con l’aggravante mafiosa. Le prove raccolte dall’accusa a suo carico sono «suggestive e incomplete», è detto nella sentenza emessa dal collegio presieduto da Edoardo D’Ambrosio (e composto, inoltre, da Giulia Crisci, estensore, e Vincenzo Corvino). La foto che sembrava “inchiodarlo” perché lo immortalava mentre imbraccia un fucile semiautomatico? Era un selfie fatto con un “vecchietto” di passaggio mentre lui animava un raduno di cacciatori in campagna, nei pressi di Cirò Marina. La foto era poi finita in una chat di famiglia giusto per fare uno “scherzo”. Ci sono pure due testimoni. In aula, davanti al Tribunale, lo hanno “scagionato”.

PASSIONE PER LE ARMI

Eppure una certa passione per le armi emergerebbe dalle conversazioni intercettate. Suo suocero è Martino Corigliano, fratello di Pietro, presunto capo bastone locale insieme al quale è stato più volte immortalato dagli inquirenti nel corso delle indagini. Durante una cena con i pezzi grossi del clan, molti dei quali suoi parenti, Benincasa avrebbe raccontato di aver fatto addirittura provare a un figlio a sparare con una pistola, alla presenza dei “cirotani”, e di aver realizzato un video. Anche se la sua passione più grande è la musica. In veste di cantante avrebbe partecipato ai matrimoni del clan, per esempio a quello di una figlia di Domenico Berlingieri, indicato dai pentiti come il guardaspalle del boss di Papanice Domenico Megna, storico alleato della cosca rocchitana, che ovviamente prese parte al banchetto per le nozze del suo fedelissimo.

TRAFFICI DI DROGA

Il monitoraggio degli indagati, oggi imputati, avrebbe consentito di fare luce anche sulla disponibilità di armi da fuoco e di documentare il loro effettivo utilizzo, durante una prova compiuta in una zona isolata. Non a caso nel corso di mirati servizi furono sequestrati quattro fucili e una pistola. Luce anche su un traffico di stupefacenti, principalmente di cocaina e marijuana. Gli imputati avevano vari fornitori in provincia di Crotone e poi smerciavano la droga a Rocca di Neto. Un affare che, sempre per l’accusa, era appannaggio della famiglia Comito. Un altro gruppo di imputati che ha scelto il rito abbreviato è stato condannato anche in Appello. Ma l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti non ha retto al vaglio del Tribunale penale di Crotone.

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