Come si amministra un Comune nel 2 mila, il caso della Città di Genova da Giuseppe Pericu a Silvia Salis
- Postato il 24 agosto 2025
- Politica
- Di Blitz
- 3 Visualizzazioni

Durante la mia vita professionale ho conosciuto una sola persona che abbia sacrificato i propri interessi personali per il bene pubblico. Eravamo nel novembre del 1997, quando Giuseppe Pericu mi confidò di avere ricevuto la proposta di presentarsi candidato a sindaco di Genova.
Cercai di dissuaderlo in ogni modo. Beppe, gli dissi, ricorda che sei un accademico di chiara fama, titolare di uno studio legale tra i più affermati in Italia. Fare il sindaco richiede il tempo pieno, perché devi rinunciare a tutto questo? Lì per lì mi disse che ci avrebbe pensato. Il giorno dopo lessi sui giornali che aveva accettato la candidatura. Non solo fu eletto ma fece il bis cinque anni dopo.
Beppe Pericu sentiva la missione del “servizio pubblico”, una virtù molto rara a ridosso degli anni di Mani pulite, allorchè la classe dirigente scappava dai ruoli di responsabilità. È indubbio che nei dieci anni di mandato, Pericu abbia dato a Genova molto più di quanto i genovesi avevano dato a lui; ed era indubbio che la professionalità necessaria per realizzare le grandi riforme del periodo poteva essere alla portata soltanto di un grande avvocato amministrativista.
Genova e le privatizzazioni

Mi riferisco in particolare alla stagione della “privatizzazione” delle aziende municipali di servizi (acqua, rifiuti, energia), avversata dalla sinistra integralista.
All’epoca, l’Amga veniva gestita da grandi dirigenti d’area come Roberto Bazzano, mentre l’Acam spezzina era governata dal democratico Gaudenzio Garavini, capace di grandi visioni strategiche. Amga e Acam vennero incorporate da Iren con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Operazioni di questo tipo erano essenziali per la tenuta della nostra economia, in linea con i francesi che avevano mantenuto intatto il loro patrimonio industriale grazie all’intervento degli enti locali, nonostante le linee UE che imponevano le dismissioni selvagge delle aziende statali. Per fortuna a Bruxelles si erano scordati dei Comuni.
Senza tali operazioni di “tutela” e valorizzazione, le società dei servizi essenziali sarebbero finite nelle mani di finanzieri esteri che tuttora ci stanno provando. Attualmente la holding è governata da un sindacato di blocco che vede prevalere i Comuni di Torino, di Genova e dell’Emilia ai fini della governance, con un flottante che sfiora il 42%. L’indotto generato da gruppo in termini di commesse esterne consente di sopravvivere a numerose aziende locali e a mantenere l’occupazione.
Pericu era stato scelto dalla coalizione guidata dal PDS, PPI e PRI, che aveva deciso di non rinnovare Adriano Sansa, un magistrato “indipendente”.
La scelta di proporre Pericu era stata coraggiosa perché il suo antagonista era un leghista che aveva il consenso mediatico di gran parte dell’opinione pubblica, che cominciava ad orientarsi verso il centro destra.
Un volto nuovo
Ci voleva un volto nuovo, una personalità forte di indiscutibile autorità morale ed estraneaall’apparato di partito.
Nel 2007 a Palazzo Tursi gli era succeduta Marta Vincenzi, condannata per la vicenda delle piene del Bisagno, a mio avviso ingiustamente perché erano state trasferite sulla sua persona responsabilità proprie della tecnostruttura comunale.
I sindaci di Genova successivi al 2017, Marco Doria, Marco Bucci e Silvia Salis sarebbero stati “indipendenti”.
Questa storia dei partiti alla ricerca di personalità “esterne” è stata una conseguenza della delegittimazione giudiziaria della classe politica, che il popolo italiano non riesce a scrollarsi di dosso dopo oltre trent’anni.
In passato, la Superba era governata da grandi personalità di partito, come i democristiani Vittorio Pertusio, Agusto Pedullà, Giancarlo Piombino, il socialista Fulvio Cerofolini e il pdessino Claudio Burlando, nominati dalle giunte.
Mi sono sempre chiesto le ragioni della scelta di personalità “senza partito”.
Una ragione potrebbe essere il dissidio interno alle coalizioni: nessun gruppo accetta un candidato di parte e quindi non resta che cercare l’”indipendente”.
L’altra ragione plausibile era che i partiti si “vergognavano” di designare un proprio candidato segnato dalle “stigmate” di appartenenza a gruppi politici screditati.
Peraltro, gli indipendenti che guidano una giunta composta dai partiti finiscono per mettersi al servizio degli “apparati”.
Marco Bucci si presentò come una figura “autonoma”, un manager capace di prendere il timone del governo senza subire limitazioni dalle liste che l’avevano presentato. In linea con il governatore Toti, fondatore di un proprio partito “nazionale”, finito nel rogo dei “finanziamenti” elettorali in cambio di “presunte” utilità pubbliche.
Il limite di questa personalizzazione della politica è l’accentramento del potere in poche mani, un vero e proprio “clan” in grado di assegnare posti di comando e prebende, come avviene per un amministratore delegato di società commerciali.
Con la conseguenza che si forma una classe dirigente di yes men, incapace di scelte autonome: una ragione della sconfitta della lista Bucci alle ultime elezioni comunali è stata la mancanza di figure di “spicco” in grado di sostituirlo.
L’accentramento di potere su una persona può avere conseguenze letali per un partito. Ne costituiscono un esempio i governatori uscenti in Campania e nelle Puglie, che pretendono un terzo mandato e minacciano di presentare liste autonome.
De Luca e Emiliano rivendicano la “proprietà” esclusiva del consenso elettorale, ottenuto grazie alla “presa di distanza” dai partiti nazionali. Mettiamoci inoltre nei panni di un semplice consigliere regionale o comunale, che percepisce emolumenti da “capogiro” e rischia di trovarsi “disoccupato”da un giorno all’altro. La politica è diventata uno dei business più redditizi dell’Italia“democratica”. Ma anche dei più precari.
I tecnici che si impegnano all’interno dei partiti con genuina passione si stagliano eticamente rispetto agli “indipendenti”, molti dei quali non si preoccupano della cosa pubblica e prendono posizione in vista di realizzare al meglio i propri interessi.
Del resto, le giunte regionali liguri di centrodestra hanno espresso imprenditori di basso rango, i quali hanno dato vita ad una spartizione di posti che non si verificava nemmeno ai tempi “gloriosi”della DC, del Pci e del PSI.
Silvia Salis (eletta al primo turno) è un personaggio che ha saputo raccogliere l’eredità morale di Beppe Pericu: è subito piaciuta ai genovesi molto più di quanto lo erano gli amministratori“blasonati” ormai decaduti.
Siamo proprio sicuri che gli elettori scelgono il sindaco basandosi esclusivamente sull’affidabilità personale del candidato?
Si consideri che spesso le formule lasciano il tempo che trovano. Il confronto diretto tra individui che non possono più essere discriminati su base ideologica bensì per le proprie capacità amministrative, appariva a tutti come un importante cambio di marcia. Infatti, se ogni volta che si va a votare prevale la logica del muro contro muro, l’elettore è portato a preferire il simbolo anziché il candidato, una situazione che rafforza il potere delle segreterie di partito che possono permettersi di proporre gli attivisti più inetti.
Tuttavia, nessun sistema sociale può fondarsi sull’individualismo; una delle più importanti funzioni dei gruppi politici è quella di aggregare gli individui sulla base di valori o di interessi per poi far valere la regola della maggioranza.
La politica richiede un grande lavoro di squadra, di persone preparate e tra loro coordinate in grado di incidere sulle decisioni pubbliche.
È stata proprio questa la ragione della supremazia degli emiliani e dei piemontesi nel risiko per il controllo della Iren.
Gli emiliani hanno una antica tradizione di governo; allo stesso modo si comportano i “raffinati” sindaci dei comuni torinesi, i quali hanno acquistato una quota partecipativa di Iren dal Comune di Genova.
La “finanza” emiliana ha realizzato notevoli operazioni sul mercato ligure.
L’episodio più rilevante è stato quello dell’acquisto di Carige da parte della Banca BPER del giugno 2022.
Lo scandalo di Carige scoppiato nel 2013, prese il via dalla relazione della Bancad’Italia, depositata in Procura nel settembre 2013. Le indagini riguardavano le speculazioni private a risvolto penale di alcuni amministratori ma nessuno fece mai emergere il vero scandalo, cioè il mancato rispetto della legge Amato.
La Fondazione Carige aveva continuato a detenere il controllo della banca senza vendere sul mercato la quota “maggioritaria del 45%”, il cui realizzo avrebbe consentito nuovi investimenti. Le quotazioni erano “drogate” dalla distribuzione di elevati dividendi. Quando scoppiò la vicenda giudiziaria, gli azionisti privati restarono con il cerino in mano e persero i risparmi di una vita.
Uno sperpero di ricchezza determinato dai mancati controlli di Banca d’Italia e del MEF, i cui funzionari erano a conoscenza della situazione anomala in cui si trovavano la Fondazione e la Banca ed erano i veri responsabili del dissesto.
Nel frattempo la banca genovese aveva mantenuto buoni livelli di professionalità interna, mai messi in discussione, tanto da far rimpiangere la sua caduta rovinosa e il passaggio dei poteri direttivi fuori dalla Regione.
Un’operazione simile fu propiziata dallo scandalo giudiziario esploso a Torino e finito nel nulla, che tuttavia consentì ad Unipol di acquistare Fondiaria Sai senza gare competitive.
Genova chiede un “miracolo” al nuovo sindaco e alla sua giunta: il recupero del ruolo di grande Città in politica ed in economia, qualcosa di più del turismo, del commercio e dell’artigianato. Il che richiederebbe di aumentare gli spazi necessari alle attività produttive piuttosto che alle passeggiate sui moli inutilizzati.
L'articolo Come si amministra un Comune nel 2 mila, il caso della Città di Genova da Giuseppe Pericu a Silvia Salis proviene da Blitz quotidiano.