Confessioni e manie di un bibliofilo
- Postato il 13 maggio 2025
- Di Panorama
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Ma i libri vivono ancora, o si persero durante il trasloco nell’era veloce del video e del digitale? Ha ancora un senso oggi il loro santuario, la biblioteca, o è solo una reliquia del passato, perché tutto è trasmigrato in una nuvola, fino a sparire? Questa è la confessione di un bibliofilo, o forse di un ex-bibliofilo. Le sue gioie, i suoi dolori, le sue ansie e le sue manie.
Per cominciare guardiamoci intorno, fuori dalla biblioteca. I lettori diminuiscono, come mai è accaduto nei tempi dell’istruzione di massa; stiamo tornando alle percentuali ultraminoritarie delle epoche dominate dall’analfabetismo. Ci sono mille surrogati di lettura: quel che troviamo in video, negli smartphone e nei loro ausiliari del traffico mediatico – i-Pad, pc, e-book, audiolibri – è legato alla lettura ma sempre più distante dal sapere umanistico e dai libri di carta. Non c’è mai tempo per leggere un libro; chi ha tempo non ha denaro per comprare libri, chi ha denaro non ha tempo da sprecare per un libro. Resistono i bestseller, che di solito sono libri liofilizzati e banali; ma meglio i bestseller che il nulla. Oggi viviamo un’altra patologia: ci sono più autori che lettori, la mania di scrivere e soprattutto di raccontarsi, rispecchiando il proprio narcisismo, supera la voglia di leggere e di capire. E tanti sono i poeti che scrivono poesie ma non le leggono, ignorano gli stessi poeti.
Chiudono le librerie, e anche in questo caso meglio un libro ordinato su Amazon che non leggere. Nelle superstiti librerie prevalgono le donne sugli uomini e gli anziani sui giovani. Il libro è frutto di una Trinità: il padre è l’autore, il figlio è il lettore, lo spirito santo è l’editore. Ora la Trinità è in crisi. A rendere vivi i libri restano i festival letterari, pur con tutte le degenerazioni da sagre paesane o i talk show para-televisivi in cui il libro è solo un pretesto. Ma meglio di niente. Ora entriamo in biblioteca. Non quella pubblica che resta distante dalla gente, le più frequentate lo sono per ragioni di studio; somigliano a quelle cattedrali raramente visitate, se non da turisti, e sempre meno dai fedeli. Parlo dunque delle biblioteche di casa. E qui devo parlarvi della mia.
Un tempo inseguivo la Biblioteca Infinita, avevo alcune decine di migliaia di libri, la curavo con passione maniacale e custodivo gelosamente i suoi tesori. I traslochi erano riti sacri, dalla tumulazione di centinaia di scaffali in cartoni alla resurrezione nella nuova casa, la sistemazione meticolosa che nessun altro poteva fare oltre me. Le ore sparivano in preda a questo delirio di beatitudine; e in quel giudizio universale ciascun libro finiva nel suo girone, infernale o celeste. Per esempio collocavo i libri e gli autori maledetti ad inferos, nei piani bassi della biblioteca, mentre i libri superflui e inconsistenti volavano nei piani inaccessibili, più alti. Erano ad altezza d’uomo i libri più letti e più necessari; ad altezza di carezza quelli da amare ma da non riprendere. Divisi per temi, autori, affinità e contrappasso.
Poi, per una serie di fattori epocali e personali, ho cominciato a disintossicarmi da quella patologia accumulativa, quel collezionismo malato, ma pur sempre associato alla volontà di leggerli e non solo allinearli sugli scaffali. Così ho cominciato a smantellare la biblioteca, a donare interi settori a fondazioni e privati, anche se di solito non fanno una buona fine; a distribuirli ai miei figli o a decentrarli tra case e spazi insoliti; alcuni blocchi furono lasciati ai traslocatori perché non sapevo più dove collocarli; altri venivano smaltiti subito, perché ricevuti ma non desiderati; ho perfino creato una specie di ruota degli esposti, come quelle dove un tempo si lasciavano i trovatelli, sperando che qualcuno li adotti. Temo sempre che venga a trovarmi qualche autore e veda la brutta fine dei suoi libri.
Ho ridotto la biblioteca all’essenziale, anche se per me l’essenziale sono diverse migliaia di libri; però non più torri di Babele, non più furore di avere libri, non più mania di possesso e hybris bibliomane. Forse ho smesso di essere bibliofilo, e per curarmi ho letto i testi che elogiano la sana ignoranza di un tempo; come quel libro di José Bergamin che denuncia preoccupato «la decadenza dell’analfabetismo», rimpiangendo la sana allergia alla lettura nel nome dell’esperienza e delle passioni vissute in diretta. Però i libri selezionati e sopravvissuti al genocidio sono amati davvero; letti, chiosati, vissuti. Ho già confessato di vivere in una casa non grande ma con mille fratelli maggiori e un consorzio di padri, un po’ meno di madri e sorelle ma non per mia scelta (sono poche le autrici, e quasi tutte del Novecento). Quando torno a casa dalla mia vita randagia di pensatore ambulante mi sembra di ritrovare cari parenti e avrei voglia di riabbracciarli, anche solo con uno sguardo e una riga.
Chi legge vive più vite in una, conosce più mondi, più epoche, più punti di vista; conosce più pensieri oltre il suo, se mai ne ha uno (ma se legge davvero vuol dire che pensa). A partire dai classici che non sono libri morti, come si dice delle lingue «morte»; anzi, se lo mettete accanto a un libro odierno, il morto non è mai il classico. Librarsi è innalzarsi, perdere gravità, acquistare lievità e lungimiranza, perché voli in alto e dall’alto vedi più cose. Infine, consiglio una dieta bilanciata: per ogni ora trascorsa sui social, fatevi una mezz’ora su un classico o su un libro che vale. Vi gioverà, lo giuro.