Corea del Nord, così i furti di criptovalute finanziano il regime e l’industria bellica
- Postato il 26 agosto 2025
- Di Panorama
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Le nazioni NATO si sono impegnate a destinare il 2% del loro PIL alle spese per la difesa, considerando questo un livello di impegno economico adeguato per garantire l’efficacia del sistema difensivo dell’alleanza. Diciamo che c’è un paese il cui PIL si aggira attorno ai 28 miliardi di euro, questo stato è piuttosto aggressivo, quindi forse la percentuale potrebbe essere maggiore, aggiungiamo infine che, proprio per questa ragione, è storicamente oggetto di sanzioni economiche internazionali di diversa natura. In questa situazione come si finanzia la spesa bellica? Qualcuno avrà capito che il paese è la Corea del Nord, ma molti meno credo sappiano che il suo apparato militare è sostanzialmente pagato dai furti di crypto valute dei criminali informatici che il governo di Pyongyang addestra e sostiene. Gruppi come il famigerato Lazarus Group, direttamente collegati al regime, sono ormai riconosciuti come gli esecutori di una lunga serie di furti di criptovalute. L’attacco alla piattaforma Bybit, avvenuto nel febbraio 2025, è diventato emblematico: oltre 1,5 miliardi di dollari sottratti in Ethereum in un’unica operazione. Secondo stime attendibili (Chainalysis, Coindesk, ONU), oltre il 70% delle criptovalute rubate nella prima metà del 2025, pari a 1,6 miliardi di dollari, è riconducibile ad attacchi sponsorizzati da Pyongyang. E non è un’eccezione: nel 2024 erano 1,34 miliardi, nel quinquennio precedente circa 3 miliardi. In media, ogni anno, la Corea del Nord sottrae criptovalute per un valore paragonabile all’intero budget di un ministero di uno stato medio. La cybercriminalità è diventata, di fatto, una delle principali fonti di valuta estera del Paese, assieme all’export clandestino e al contrabbando. In tutto ciò non si può dire che usa l’architettura stessa della rete mondiale per sopravvivere. Così ogni transazione rubata è un gesto strategico, ogni wallet violato un contributo alla sopravvivenza del regime. Ecco un punto essenziale: non è un furto casuale, ma una forma di politica estera. L’Occidente blocca conti, impone sanzioni, alza muri. Pyongyang risponde con righe di codice che scavalcano le barriere e trasformano l’intangibile in potenza. Come ha scritto un analista dell’FBI, “ogni moneta digitale rubata potrebbe essere convertita in uranio arricchito”. È un’economia del sottratto, un capitalismo del crimine, dove la trasparenza della blockchain diventa lo specchio rovesciato di un regime opaco. E allora, forse, la vera innovazione nordcoreana non sono i suoi missili, ma qualcosa di più sottile e inquietante: il furto come modalità per far tornare i conti del bilancio. Un modello alternativo di sostenibilità, fondato non sul consenso, ma sulla sottrazione. In un mondo dove ogni budget deve quadrare, Pyongyang lo fa col codice. E senza chiedere il permesso.