Cosa cambia per Usa e Cina con un papa americano. L’analisi di Sisci

  • Postato il 11 maggio 2025
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  • Di Formiche
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Come ha notato il saggio Stefano Folli su Repubblica, la distanza tra le due sponde del Tevere, tra la Roma politica e la Santa Sede, asse portante della stabilità politica italiana per forse oltre un secolo, si è allargata di nuovo con la elezione di un papa americano. Ormai tale distanza sembra irriconciliabile.

Contemporaneamente, è accaduto un altro fenomeno politico completamente nuovo: l’accorciamento imprevisto e drammatico della distanza tra le due sponde dell’atlantico, tra Roma e Washington.

A poche ore dalla sua elezione, l’immagine di papa Leone XIV, il primo capo della Chiesa cattolica nato in America, è esplosa in patria. Gigantografie del papa in mozzetta e occhiali torreggiavano a Times Square, il luogo iconico che l’America dedica alle sue superstar. Interviste ai suoi due fratelli scioccati e felici, imperversavano su ogni canale. La popolarità del nuovo Papa, timido, riservato, è destinata a crescere nei prossimi mesi e anni. Al di là delle intenzioni e delle preferenze elettorali, il suo peso oggettivamente politico sarà un elemento importantissimo, forse fondamentale, delle dinamiche americane.

Non sappiamo il programma di Robert Francis Prevost da Papa. Sappiamo che Leone XIII, il pontefice da cui l’attuale papa ha preso il nome, fu l’uomo che cercò di dare una nuova posizione “politica” alla Chiesa in un mondo che era moderno e non aveva più lo Stato pontificio, il potere temporale della Chiesa. Con Leone XIII nacquero i partiti popolari in Italia, Germania e Francia, destinati a marcare, con un senso di moderazione fra i doppi estremismi di destra, fascisti, e sinistra, comunisti, le direzioni politiche del Vecchio continente.

Così, al di là delle intenzioni di papa Leone XIV, la politica americana da oggi in poi dovrà confrontarsi molto più urgentemente con il pensiero del Vaticano. Sappiamo che il voto cattolico è stato determinante per la elezione del presidente Donald Trump. Sappiamo anche che la decisione della sua sfidante dem, Kamala Harris, di non partecipare all’evento bipartisan ospitato dal cardinale di New York, Timothy Dolan, alla vigilia del voto forse è stato decisivo nell’aggiudicare il risultato elettorale. Secondo voci insistenti a Roma, Dolan è stato l’artefice magico della elezione di Prevost. Mettendo in fila tutti questi punti si delinea la presenza oggettiva di un “partito popolare” americano di questo secolo simile a quello che furono i partiti popolari europei nati tra fine Ottocento e inizio Novecento.

Il viaggio che prima o poi avverrà di Papa Leone XIV in America sarà certamente un trionfo di immagine e popolarità destinato a marcare la scena politica, sociale ed economica del Paese forse per anni. In altre parole, oggi la politica americana ha un nuovo protagonista che nei fatti oscura Trump: il Papa. Potrebbe creare nuovi ostacoli per la politica americana, ma anche nuove carte vincenti. In futuro, indipendentemente dalla nazionalità del Papa, la politica americana e globale sarà maggiormente influenzata dal Vaticano.

L’Italia governata dalla Democrazia cristiana dopo la Seconda guerra mondiale fu rapidamente abituata a far gestire le sue cose politiche in un dialogo costante con Oltretevere. Non è chiaro come il governo e la politica americana vorranno e potranno gestire la loro politica interna quando un protagonista non è a Washington ma a Roma.

Cambia così tutta la dinamica politica americana e anche, il ruolo dell’America nel mondo, cambia anche la politica mondiale. Roma è abituata a questo ruolo binario.

La Santa Sede fu coprotagonista dei grandi imperi cattolici e dei regni europei per oltre mille anni. Diplomazie, politiche matrimoniali, fino alla celeberrima divisione delle colonie americane non passavano solo dalle corti europee ma anche dal soglio di Pietro. Gradualmente, in passi successivi dall’inizio della riforma di Martin Lutero (frate agostiniano come Prevost) Roma ha perso il suo potere.

Il trattato di Vestfalia del 1648 fu un primo colpo fondamentale. Un secondo è arrivato con la Rivoluzione francese del 1789, che ufficialmente emarginava la chiesa dalla politica. Il terzo, apparentemente mortale, fu nel 1871 con la fine dello Stato pontificio. Ma proprio Leone XIII, con la sua Rerum Novarum, intuì che la perdita dello Stato pontificio liberava il Papa da un fardello temporale e permetteva una proiezione di influenza nuova e senza precedenti in tutto il mondo.

Oggi il Papa americano anche in virtù della sua influenza oggettiva a Washington, che non ha bisogno di essere espressa in tweet ossessivi, ma a cui basta la sua sola presenza irradiante, diventa un interprete della politica mondiale.

Probabilmente non ci vorrà molto tempo perché la politica americana e poi quella mondiale si rendano conto di questa nuova forza gravitazionale, da motore immobile, del papato e si muovano di conseguenza concentrando sforzi diplomatici intorno a Roma. A favore o contro il potere del Papa, come è stato per secoli.

Questo potrebbe avere un paio di conseguenze molto pratiche. Innanzitutto, rafforza la presenza del segretario di Stato, Pietro Parolin, diplomatico di lunghissimo corso, rispettato che più di ogni altro può gestire questa delicata fase di transizione, promozione del ruolo della Santa Sede. Il secondo punto, a tratti paradossale, è che da questa dinamica la Cina è oggettivamente esclusa. Durante il papato di Francesco, Pechino ha allacciato delle prime relazioni con la Santa Sede, ma ha costantemente esitato nell’approfondirle, rimanendo fuori da un rapporto pieno con il Papa. Per la Cina il rapporto con la Santa Sede è estremamente delicato perché non riguarda gli interessi di uno stato straniero rispetto allo stato cinese, ma l’interesse di una entità religiosa internazionale per il benessere religioso di cinesi in Cina, i cattolici cinesi appunto.

È un tipo diverso di rapporto “politico” che la Cina non ha nel suo codice culturale e che ancora non ha capito come gestire per le contraddizioni che genera con il suo sistema politico interno. Questo però con un papa americano, che pesa sulla politica americana, significa escludere Pechino da una dinamica forse fondamentale del processo decisionale degli Stati Uniti e del mondo.

La Cina è oggettivamente a un bivio. Certo le dinamiche della Santa sede sono lente, e non c’è oggi grande urgenza di cambiamenti repentini. Ma sono l’inizio di dinamiche nuove destinate a cambiare in direzioni ancora sconosciute i destini del mondo. Pechino non dovrebbe distrarsi.

Autore
Formiche

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