Cosenza, Mario Pirovano: «Per fare teatro bisogna essere liberi»

  • Postato il 5 giugno 2025
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Cosenza, Mario Pirovano: «Per fare teatro bisogna essere liberi»

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Per la prima volta in Calabria, Mario Pirovano – erede carismatico del teatro di Dario Fo e Franca Rame – ha infiammato il palco del TAU con “Lu Santo Jullàre Francesco”. Ma il suo talento va oltre la scena: con due workshop intensi, ha coinvolto studenti e appassionati in un’esperienza vibrante e autentica. Al Teatro delle Arti di Celico, la magia è esplosa con “Mistero Buffo”, il capolavoro che lo ha consacrato attore. Un incontro travolgente tra arte, memoria e futuro. L’intervista esclusiva a Mario Pirovano.


COSENZA – Al Celico International Art Festival, sul palco del Teatro Auditorium Unical (TAU), per la prima volta in Calabria, Mario Pirovano – erede artistico del teatro popolare di Dario Fo e Franca Rame – ha portato in scena “Lu Santo Jullàre Francesco”. Potente, tagliente, visionario, il monologo firmato da Dario Fo è dedicato a una delle figure più sovversive della storia: San Francesco. In scena, Pirovano dà corpo e voce a un intero mondo medievale: papi e cardinali, soldati e mercanti, monaci e contadini.

Storia e tradizione si fondono in un racconto che vibra di umanità e ironia, ripercorrendo episodi simbolici della vita del Santo: l’approvazione della Regola da parte di Papa Innocenzo III, la predica agli uccelli, l’incontro con il lupo. Ogni parola è un colpo. Ogni gesto, una scintilla. Con la sua interpretazione intensa e rigorosa, Mario Pirovano ha saputo catturare l’attenzione e l’emozione del pubblico del TAU raccontando Francesco come una figura che ancora oggi parla di ribellione, spiritualità e cultura popolare. Un evento che ha unito storia, teatro e anima.

Ma non finisce qui. Il talento di Pirovano non si è fermato al palcoscenico: ha conquistato studenti e appassionati con due workshop intensi ed empatici – “Retrospettiva su Dario Fo e Franca Rame” e “I monologhi di Dario Fo” – dimostrando un’eccezionale capacità di entrare in contatto con il suo pubblico. Un’energia rara, una generosità travolgente nel raccontarsi e nel rispondere con intelligenza e ironia alle curiosità più disparate.

La magia è proseguita al Teatro delle Arti di Celico, dove l’artista ha portato in scena “Mistero Buffo”, il capolavoro immortale di Dario Fo che l’ha consacrato attore. Quando il teatro incontra la passione autentica e l’arte della parola diventa carne e sangue e il pubblico non può far altro che restare incantato. “Mistero Buffo” è un’opera senza tempo, un classico del teatro del Novecento. Composto da una serie di “giullarate” – antichi racconti popolari rielaborati con sarcasmo, irriverenza e poesia – fin dal suo debutto nel 1969, “Mistero Buffo” continua a parlare al presente con una forza sorprendente.

Nella versione proposta da Pirovano, cinque i brani scelti, ciascuno un piccolo affresco di vita e provocazione. La lingua è un tessuto vivo di dialetti del Nord e del Centro Italia, rimescolati, reinventati, ma sempre chiarissimi. Il celebre attore, con maestria rara, riempie il palco da solo, creando – senza ausili scenici – una moltitudine di personaggi, ambienti, oggetti. Per saperne di più, abbiamo intervistato Mario Pirovano.

Mario Pirovano, cos’ha provato nel portare in scena per la prima volta in Calabria “Lu Santo Jullàre Francesco”?

«È stato un grande onore. Sono strafelice! È andata benissimo. Dopo oltre trent’anni di carriera e decine di Paesi in tutto il mondo, finalmente lo spettacolo è arrivato in Calabria, terra ricca di spiritualità e cultura popolare. Aver portato qui Francesco — una figura ancora oggi rivoluzionaria — è come completare un cerchio. Gioacchino da Fiore fu un ispiratore per lui. In un certo senso, lo spettacolo è tornato a casa».

La scena dell’incontro con il lupo è centrale: Francesco non combatte il diverso, lo ascolta. Quanto è attuale questo episodio in un tempo come il nostro, spesso segnato da paure e chiusure?

«È un tema attualissimo: nessuno ascolta più davvero. Si cerca il dialogo, ma si finisce per parlarsi addosso. Il pubblico coglie chiaramente il senso dell’allegoria».

La predica agli uccelli come grido di libertà: quale significato assume oggi, per lei come attore e per il pubblico contemporaneo?

«Quel momento ha un valore allegorico potentissimo: Francesco si ritrova a parlare agli uccelli perché gli uomini si rifiutano di ascoltarlo. Quante volte capita anche a noi? Quante volte ci confidiamo con un animale domestico perché le persone attorno a noi – amici, familiari – sembrano sorde? Viviamo in un mondo dove spesso prevale l’indifferenza, e non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Ma Francesco ci insegna che questo non deve impedirci di esprimere ciò che sentiamo. E alla fine, proprio mentre parla agli uccelli, scopre che una folla si è radunata dietro di lui, ad ascoltarlo. Quello che diceva agli uccelli era in realtà rivolto agli uomini.

È una metafora del potere che ignora le voci contrarie e prosegue per la sua strada. Anche oggi, nonostante il rifiuto della guerra da parte di tanti, si continua a investire nella corsa agli armamenti. Francesco dice agli uccelli: “voi siete leggeri, liberi, non avete proprietà, non vi fate la guerra”. Li invidia, e in quelle parole c’è un invito attualissimo: liberarci dall’avidità, dalle paure, da tutto ciò che ci tiene prigionieri».

Francesco si definiva “giullare di Dio”. In che modo questo spirito rivive oggi sul palcoscenico?

«Francesco viveva con l’urgenza di fondersi completamente con il messaggio di Cristo. Era profondamente innamorato della sua idea di religione, una fede viva, incarnata, fatta di gesti semplici e di verità condivise. Questa tensione spirituale lo spingeva a portare ovunque la parola del Vangelo, raccontandola come un cantastorie, un giullare appunto, rischiando spesso di essere frainteso o addirittura accusato di eresia. È accaduto anche a figure come Gioacchino da Fiore, che cercavano di rinnovare la fede parlando al cuore della gente. Sul palcoscenico, questo spirito si traduce nella volontà di parlare all’anima dello spettatore, con autenticità, umiltà. Proprio come faceva Francesco».

Mario Pirovano, a Celico ha portato in scena proprio Mistero Buffo, l’opera che ha segnato il suo esordio come attore. Ci racconta com’è andata davvero quella prima volta?

«Tutto è iniziato quasi per caso, o forse per destino. Era il 1983, vivevo a Londra già da dieci anni e non avevo mai avuto un vero interesse per il teatro. Però conoscevo i nomi di Dario Fo e Franca Rame. Quando seppi che erano in tournée lì, andai con un amico a salutarli. Non avevamo neanche intenzione di assistere allo spettacolo. Ma Dario ci accolse con una gentilezza disarmante e ci regalò due biglietti. Quella sera vedemmo Mistero Buffo. Fu uno choc. Quel teatro così fisico, potente, fatto di parole, corpo, anima… mi travolse. Risi per due ore e mezza. Mi si aprì un mondo che non sapevo neanche esistesse».

E da spettatore è diventato attore…

«È successo. Non l’ho cercato. Dopo quella sera, mi invitarono a tornare: sarebbero rimasti a Londra un mese. Presi qualche giorno di ferie dal lavoro in agenzia viaggi e cominciai a tornare a teatro ogni sera. Franca, vedendomi così coinvolto, mi propose di collaborare. E così, piano piano, cominciai ad aiutarli. Da lì non li ho più lasciati. Ho iniziato a seguirli ovunque, a dare una mano come potevo. Ma il vero battesimo è arrivato dieci anni dopo, con un episodio che pochi conoscono, nemmeno nel mondo del teatro».

Ci racconti…

«Ero a Gubbio, alla Libera Università di Alcatraz, fondata da Dario, Franca e Jacopo. D’estate lavoravo lì. Un giorno vidi un gruppo di ragazzini che si insultavano pesantemente. Mi indignai. Mi avvicinai, un po’ come farebbe un fratello maggiore, cercando di calmarli. Così, per stemperare la tensione, iniziai a raccontare – quasi per gioco – una storia che avevo sentito decine di volte da Dario: “Il primo miracolo di Gesù Bambino”. I ragazzi cominciarono a ridere a crepapelle. Ne parlarono con i genitori, con gli insegnanti, e mi chiesero di raccontarla davanti a tutta la scuola. Quella richiesta mi spiazzò. Una cosa era improvvisare tra i ragazzi, un’altra era salire su un palco. Ma accettai. E quello fu il mio vero battesimo».

Una storia di bullismo che si trasforma in una lezione di empatia e rinascita…

«Esattamente. Quella provocazione mi ha spinto verso di loro, ha creato un ponte. E quella sera, senza saperlo, quei ragazzi mi hanno trasformato in un attore. È una storia incredibile, che conoscono in pochissimi, perfino nel mondo del teatro. In una settimana, sono riuscito a raccontare due ore di Mistero Buffo».

E da allora non è più sceso dal palco… Al Celico International Art Festival ha tenuto anche dei workshop. Che atmosfera ha trovato tra appassionati e aspiranti attori?

«Un clima davvero vivo, curioso. Questo entusiasmo, questo ascolto autentico, è il segno più bello che il teatro continua a parlare, a toccare, a generare nuove energie. Alcuni dei partecipanti erano profondamente innamorati di questo tipo di teatro, e si percepiva subito, dalle domande che facevano, dalla luce negli occhi. Durante gli incontri ho condiviso gran parte del mio percorso, perché tutto – davvero tutto – può diventare teatro. Ogni esperienza, ogni frammento di vita, può essere trasformato in racconto scenico. E loro lo capivano. Molti avevano con sé i libri di Dario Fo, e alcuni hanno acquistato sul momento i testi che citavo dal palco. Le case editrici dovrebbero assumermi e invitarmi a fare degli spettacoli (ride, ndr)».

Mario Pirovano, lei ha fatto un lavoro straordinario traducendo in inglese le opere di Dario Fo e portandole in giro per il mondo…

«Questa è forse la cosa che più mi riempie di gioia e soddisfazione. Anche perché, a dirla tutta, io ho fatto poca scuola nella mia vita. Ho sempre avuto difficoltà con lo studio, e ho cominciato presto a lavorare. Figurarsi poi mettersi a tradurre… e non semplicemente a parlare l’inglese per strada, ma a trascriverlo, adattarlo, rielaborarlo per rendere i testi di un Premio Nobel come Dario Fo! È stata una sfida immensa.

Un aneddoto a riguardo?

«C’è un episodio molto divertente che non ho mai raccontato. Ero a Milano, a casa di Dario e Franca, e mi venne l’idea di tradurre “Johan Padan a la descoverta de le Americhe”. Era il secondo spettacolo che avevo portato in scena dopo “Mistero Buffo”. Altri lo avevano già rappresentato, ma con scarso successo. Non funzionava: mancavano l’anima e il ritmo, che rendevano il testo vivo e vibrante. Così mi misi a lavorarci, proprio lì, a casa loro. Ricordo che ogni tanto Dario passava davanti a me, curioso, e guardava quello che stavo facendo. Non disse mai nulla, non mi interruppe mai. Ma si vedeva che era sorpreso… meravigliato, quasi divertito, nel vedermi immerso nella traduzione, totalmente coinvolto. Aveva capito che ci stavo prendendo gusto. Ogni tanto, andavo da lui a chiedere consigli. E quella scintilla, quel suo sguardo, fu la mia prima approvazione silenziosa».

Il più grande insegnamento ricevuto da Dario Fo e Franca Rame?

«L’onestà nei rapporti umani, la coerenza, la bontà. E, soprattutto, l’attenzione profonda verso gli altri e verso il mondo. Dario e Franca erano persone che si assumevano sempre la piena responsabilità di ciò che facevano. Per molti non era facile collaborare con loro, perché non delegavano alla leggera: volevano essere responsabili in prima persona del proprio lavoro, anche degli eventuali errori. Non permettevano che qualcuno pagasse al posto loro. Avevano una visione etica del lavoro, del teatro, della vita.

Ma erano anche straordinariamente generosi. Ricordo un episodio che dice tutto: una volta, uscendo di casa, ci fermò un gruppo di operaie di una fabbrica di Bollate in sciopero. Chiesero a Franca di aiutarle con uno spettacolo. Nel giro di una settimana lo organizzammo. Tutto il ricavato andò a sostegno di quelle donne, che non percepivano stipendio. Questo erano Dario e Franca: si spendevano sempre, senza riserve. Ed è proprio questo che mi spinse, nel 1983, ad andare a salutarli a Londra. Li conoscevo già attraverso le loro battaglie. Sapevo chi erano. Sapevo che avevano sempre lottato per qualcosa di più grande di loro stessi. E quella coerenza profonda, quella generosità instancabile, è l’eredità più grande che mi hanno lasciato. Il loro lavoro è conosciuto in tutto il mondo ed io sono strafelice di aver fatto parte di questa famiglia e di portare avanti il loro teatro dappertutto».

Mario Pirovano, un consiglio ai giovani e agli aspiranti attori?

«Non arrendersi mai! Se avete un’idea, portatela avanti contro tutto e tutti. Non lasciatevi fermare dai preconcetti e soprattutto non abbiate pregiudizi. Per fare teatro bisogna essere veramente liberi!».

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