“Così l’Irpef gonfiata dall’inflazione ha sottratto a un lavoratore medio più di 1000 euro in tre anni”. Le simulazioni della Cgil
- Postato il 9 ottobre 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Negli ultimi tre anni l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni. Ma ad aver impoverito i lavoratori è stato anche il combinato disposto tra carovita e fisco. Lavoratori e pensionati italiani, stando alle stime degli economisti Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, hanno versato allo Stato circa 25 miliardi di euro in più per colpa del drenaggio fiscale, cioè l’aumento delle imposte dovuto al mancato adeguamento degli scaglioni Irpef all’inflazione. Un meccanismo tecnico ma dagli effetti molto concreti: più gettito per lo Stato e tasche più leggere per i contribuenti, anche se il loro reddito reale è rimasto al palo o diminuito.
Le simulazioni elaborate dall’Ufficio economia della Cgil, che ha calcolato la differenza tra l’imposta effettivamente pagata e quella dovuta in un regime Irpef perfettamente indicizzato
all’inflazione, mettono in evidenza l’impatto in alcuni casi specifici. Un lavoratore dipendente con contratto rinnovato e il salario di conseguenza ritoccato al rialzo dai 28mila euro lordi del 2022 a 30.990 nel 2024 ha subito un drenaggio di ben 1.382 euro nel triennio. Chi non ha avuto aumenti, e ha mantenuto un imponibile poco sopra i 27mila euro, ne ha persi comunque 1.032: ha subito un prelievo più oneroso nonostante il suo potere d’acquisto sia diminuito. Per i pensionati, nonostante la perequazione, l’aggravio è stato di oltre 700 euro. Un prelievo aggiuntivo silenzioso, molto utile per far quadrare i conti pubblici riducendo il rapporto deficit/pil come rivendicato dal ministro Giancarlo Giorgetti. Ma in netto contrasto con la narrazione di un governo che dice di voler ridurre le tasse e non sa spiegare in maniera convincente come mai la pressione fiscale continui invece ad aumentare.
Se si tiene conto del “drenaggio”, anche la promessa di inserire nella prossima legge di Bilancio il “taglio dell’Irpef al ceto medio” – in realtà un mini ritocco della seconda aliquota, che scenderebbe dal 35 al 33% per i redditi da 28mila a 50mila euro – perde appeal. Perché quella misura non compensa nemmeno lontanamente l’aggravio già subito. Chi guadagna fino a 28 mila euro non vedrà alcun beneficio. Chi ne guadagna 30mila, a fine anno avrà sul conto appena 40 euro in più, meno di un mese di rincari sul carrello della spesa. Dai 50mila euro in su il beneficio toccherà invece i 440 euro annui. Potrebbero essere previsti paletti per evitare che il beneficio vada anche chi ha redditi molto alti. In quel caso il costo dell’intervento potrebbe essere contenuto sotto i 4 miliardi, cifra comunque ben lontana dal drenaggio causato dall’inflazione.
L’Irpef gonfiata dall’aumento dei prezzi è peraltro l’ultimo tassello di un quadro di per sé estremamente iniquo. Perché il sistema fiscale italiano, ricorda il sindacato guidato da Maurizio Landini, tratta in maniera ben diversa lavoratori dipendenti, pensionati e chi gode di regimi agevolati. A parità di reddito (35mila euro nella simulazione dell’ufficio studi), un dipendente paga 6.900 euro di Irpef, un pensionato 8.400, un autonomo in flat tax 4.000, chi vive di rendita finanziaria 4.300. Questo senza considerare che lavoratori e pensionati non possono nascondere redditi, mentre stando all’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva la propensione al tax gap dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese, calcolata come rapporto fra il totale delle entrate sottratte alla finanza pubblica con l’evasione e il gettito potenziale, è poco sotto il 67%.
In aggiunta chi gode della flat tax, rincara la Cgil, non paga neppure le addizionali regionali e comunali, cioè non contribuisce ai servizi pubblici locali di cui beneficia. Se anche solo su quella platea venisse applicata la tassazione ordinaria, e senza nemmeno considerare le risorse che si potrebbero recuperare azzerando l’evasione, il gettito salirebbe di oltre 5 miliardi di euro.
L’analisi prosegue notando che il drenaggio fiscale subìto da lavoratori dipendenti e pensionati rischia ora di essere utilizzato” per fare ancor più austerità rispetto a quella già prevista” e ridurre il deficit/pil sotto il 3% prima di quanto preventivato “allo scopo di attivare – dal 2026 – la clausola di salvaguardia nazionale del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) per scomputare le spese per il riarmo e indebitare ulteriormente il Paese nella direzione dell’economia di guerra”. A partire dai 23 miliardi aggiuntivi previsti per il triennio 2026-2028 Documento programmatico di finanza pubblica, nei prossimi dieci anni “l’Italia spenderà complessivamente – in termini cumulati, anno dopo anno – circa 964 miliardi per la difesa. Un’ingente mole di risorse che verrà sottratta allo stato sociale, ai salari e alle pensioni e alle politiche industriali e agli investimenti indispensabili per invertire il declino economico, rilanciare la domanda interna, creare lavoro di qualità e innovare il nostro sistema produttivo”.
La Cgil chiede al governo di restituire i 25 miliardi di drenaggio già subiti e introdurre l’indicizzazione automatica dell’Irpef all’inflazione, in modo che scaglioni e detrazioni si adeguino ogni anno.
Poi auspice la detassazione degli aumenti contrattuali, la piena perequazione delle pensioni e una riforma fiscale coerente con la Costituzione, che prenda le risorse “dove sono”: extraprofitti, grandi patrimoni, rendite finanziarie, evasione.
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