Così Trump proverà a sfruttare la sparatoria di Washington: attacchi a Biden, stretta su immigrazione e sicurezza ed espulsioni di massa

  • Postato il 27 novembre 2025
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Un atto di terrorismo”. È netta, priva di dubbi, la prima reazione di Donald Trump all’attacco di Washington. Non ci sono ancora dettagli certi su ragioni e background dell’attentatore, ma il presidente – in un video registrato a Mar-a-Lago, dove si trova per il Giorno del Ringraziamento – usa la sparatoria per attaccare l’amministrazione Biden e sottolineare “la più significativa minaccia alla sicurezza nazionale che la nostra nazione deve fronteggiare”. In arrivo, con ogni probabilità, una nuova stretta su immigrazione e diritti.

Non è un momento politicamente facile per Trump. Economia, Epstein Files, tensioni nel mondo MAGA, Ucraina, redistribuzione dei distretti elettorali: sono tante le questioni che rendono tortuoso e difficile il governo del presidente, precipitato al 40% di gradimento tra gli americani – nemmeno l’impopolare Joe Biden era così impopolare. La sparatoria di Washington gli può però dare nuovo ossigeno politico, consentendogli di riposizionare il dibattito sulla linea che gli è più congeniale: quella della sicurezza, dell’ordine interno minacciato da immigrati e terroristi.

Nel video da Mar-a-Lago, Trump è stato veloce nell’attribuire all’amministrazione Biden la responsabilità dell’attacco: “Dobbiamo riesaminare ogni singolo straniero entrato nel nostro Paese dall’Afghanistan sotto la presidenza di Biden, un presidente disastroso, il peggiore della nostra storia”. In effetti Rahmanullah Lakanwal, il 29enne considerato responsabile del ferimento dei due membri della Guardia Nazionale, è arrivato negli Stati Uniti dall’Afghanistan nel settembre 2021, nell’ambito di un programma introdotto da Joe Biden e chiamato Operation Allies Welcome. L’intenzione era quella di aiutare quegli afghani che hanno svolto un ruolo fondamentale nel supportare le truppe statunitensi durante la guerra e l’occupazione – traduttori, fornitori di servizi, collaboratori vari – e che ora si trovano a rischio di ritorsioni da parte dei talebani.

A differenza di quello che sostengono alcuni membri dell’amministrazione, il programma non concede comunque uno status di immigrazione permanente, ma solo due anni di soggiorno, dopo i quali gli afghani devono trovare altri mezzi per restare negli Stati Uniti – tra questi, la richiesta di asilo politico. Dopo l’attacco di Washington, gli U.S. Citizenship and Immigration Services hanno sospeso “a tempo indeterminato l’elaborazione di tutte le richieste di immigrazione relative a cittadini afghani, in attesa di un’ulteriore revisione dei protocolli di sicurezza e di controllo”. L’Afghanistan faceva però già parte di quei Paesi – insieme a Myanmar, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen – per i quali dallo scorso luglio è stata sospesa la concessione dei visti. Il provvedimento attuale va quindi a colpire gli afghani che si trovano già negli Stati Uniti e che cercano di rimanervi con la richiesta di green card o asilo politico.

L’orizzonte di vita degli afghani negli Stati Uniti rischia dunque di diventare particolarmente cupo. Per molti di loro, si prospetta il rimpatrio e le probabili persecuzioni dei Talebani. C’è però di più. Nel video da Mar-a-Lago, Trump si è scagliato contro gli immigrati somali in Minnesota. Ha affermato che stanno “derubando il nostro Paese e facendo a pezzi quello che un tempo era un grande Stato”. Particolarmente pesante anche la rappresentazione che il presidente ha dato della Somalia, descritta come un Paese “senza leggi, senza acqua, senza esercito, senza niente”. L’attacco ai somali potrebbe apparire singolare, essendo un afghano il responsabile dell’attacco. In realtà, le frasi di Trump hanno un senso preciso. L’amministrazione Usa sta cercando di revocare lo “status di protezione temporanea” per migliaia di persone che provengono da zone pericolose del pianeta, cui negli anni passati era stata data accoglienza temporanea. Trump ha già revocato la protezione a 300mila venezuelani e nei giorni scorsi ha annunciato la fine del programma che ha consentito a migliaia di somali di fuggire la guerra civile e godere dei programmi sociali e di accoglienza particolarmente benevoli del Minnesota, uno Stato del Midwest governato dal democratico Tim Walz. Ecco, quindi, che l’attacco di Washington potrebbe essere utilizzato per far partire una stretta ulteriore sull’immigrazione. Nel mirino dell’amministrazione non ci sarebbero soltanto gli afghani ma quei “venti milioni di stranieri” – cifra che non ha alcun riscontro nella realtà ma che Trump ha ripetuto nel video da Mar-a-Lago – che Biden avrebbe fatto entrare illegalmente negli Stati Uniti.

Oltre che sull’immigrazione, l’attacco di Washington avrà effetti probabili anche sulle questioni di ordine pubblico. Sempre nel video registrato dopo la sparatoria, Trump parla dell’operazione di sicurezza “di maggior successo nella storia della nostra capitale”. Il presidente si riferisce all’invio a Washington, lo scorso agosto, di oltre duemila soldati della Guardia Nazionale. Le truppe, oltre che dalla capitale, erano arrivate da West Virginia, Alabama, Louisiana, Mississippi, Ohio, South Carolina. Trump, che aveva assunto anche il controllo della polizia cittadina, aveva giustificato la decisione parlando di una città “travolta da criminalità e illegalità”. La mossa aveva sollevato le proteste della sindaca della capitale, la democratica Muriel Bowser, e di molti residenti, che non si ritrovano nella descrizione così estrema e minacciosa della loro città. Dubbi e polemiche si erano allargati ben al di fuori della capitale. Alcuni tra gli stessi responsabili e membri della Guardia Nazionale, di solito utilizzate a fini di assistenza umanitaria all’interno dei confini americani, avevano espresso il timore di essere coinvolti in disordini, proteste, violenze, repressione che non fanno solitamente parte delle loro incombenze.

Ne era nata una diatriba legale – come peraltro in ogni altra città Usa dove sono stare dispiegate le truppe – che ha avuto un esito temporaneo la settimana scorsa, quando una giudice federale di Washington DC ha stabilito che la combinazione di truppe provenienti da diversi Stati, riunite a Washington sotto un comando centrale, costituisce un uso illecito – e quindi “probabilmente illegale” – della Guardia Nazionale. La giudice ha sospeso la sua decisione fino all’11 dicembre, per rendere anche possibile il ricorso, poi puntualmente arrivato, dell’amministrazione. Oltre al ricorso, è però a questo punto arrivato anche l’attacco di Washington. Il segretario alla giustizia, Pete Hegseth, ha subito annunciato l’invio nella capitale di altri 500 soldati. Intanto, il generale di brigata David L. McGinnis, ex capo di stato maggiore della “National Guard Association of the United States”, afferma che l’attacco rappresenta “un altro buon motivo per cui dobbiamo schierare la Guardia Nazionale in ogni strada di ogni città democratica del Paese”. Aspettiamoci dunque, nei prossimi giorni, un rinnovato slancio retorico da parte di Trump e dei suoi alleati nel chiedere il dispiegamento di militari per le strade di mezza America.

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