Creatori di miti. Reportage dalla Biennale Danza 2025 di Venezia
- Postato il 30 luglio 2025
- Teatro & Danza
- Di Artribune
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Fino al 2 agosto si snoda Myth Makers, il titolo scelto dal coreografo britannico Wayne McGregor per l’edizione 2025 del Festival Internazionale di Danza Contemporanea organizzato nell’ambito di Biennale Danza. Nei primi giorni, in programma due lavori del Leone d’Oro alla carriera, l’ottantaquattrenne statunitense Twyla Tharp; il nuovo spettacolo del Leone d’Argento, l’autrice, regista e performer brasiliana Carolina Bianchi; ma anche la compagnia australiana Chunky Move, poco nota in Europa ma esemplare di una certa ricerca mirata a fondere tradizione e tecnologie avanzata; due lavori montati con i partecipanti a Biennale College Danzatori rispettivamente da Sacha Waltz e da Anthony e Kel Matsena; e l’ultima creazione della coreografa canadese Virginie Brunelle.
Non abbiamo assistito al doppio programma proposto da Twyla Tharp, comprendente Diabelli, una coreografia tratta dal vasto archivio della coreografa – che celebra il suo anniversario di diamante con il mondo della danza – e basata sulle omonime Variazioni di Beethoven; e, in prima europea, Slacktide, frutto della sua ritrovata collaborazione col compositore Philip Glass. Vi parleremo, però, di Brotherhood, il nuovo, monumentale e sbaragliante lavoro di Carolina Bianchi, di U>N>I>T>E>D di Chunky Move, di Fables di Virginie Brunelle e delle restituzioni di Biennale College Danzatori.
Brotherhood di Carolina Bianchi
Brotherhood è il secondo capitolo della Trilogia Cadela Força, iniziata con lo spettacolo La Sposa e Buonanotte Cenerentola (debutto al Festival di Avignone nel 2023) e realizzata da Carolina Bianchi insieme al suo collettivo, con sede a San Paolo, Cara de Cavalo. Una Trilogia originata da una vicenda traumatica vissuta dalla stessa autrice-regista-performer brasiliana – dal 2020 residente ad Amsterdam. Uno stupro subito dopo essere stata sedata con la famigerata droga “buonanotte Cenerentola”; un evento potenzialmente distruttivo – non è un caso che in Brotherhood si faccia riferimento al suicidio quale scelta “liberatoria” compiuta da molte vittime di violenza, a partire dalla romana Lucrezia – ma trasformato da Bianchi in punto di avvio di una ricerca certo personale ma anche universalmente artistica e autenticamente politica. Lo spettacolo presentato a Venezia è introdotto da un sipario che riproduce il ratto di Lavinia dipinto da Rubens, esemplare dei molti stupri/ratti che costellano la storia dell’umanità e la sua narrazione, a partire dal mito di Persefone/Proserpina, esplicitamente citato da Bianchi. La performer, un “fantasma” in mezzo a esseri reali, esplora nello spettacolo il costante dominio della “fratellanza” – il titolo Brotherhood è tratto dagli studi dell’antropologa argentina Rita Laura Segato sulla violenza sessuale e in particolare sui femminicidi seriali che hanno reso tragicamente nota la città messicana di Ciudad Juárez. Patti di mascolinità che attraversano il mondo del teatro: fili rossi dello spettacolo sono infatti il Gabbiano di Čechov, ma anche la figura di Sarah Kane e poi sipari di dura e ironica evidenza come l’intervista all’immaginario regista Klaus Haas, nome tratto da 2666 di Roberto Bolaño. Bianchi, da una parte denuncia la persistenza di un’atavica, tacita e tenace alleanza maschile, trasversale a classi sociali e cultura – anzi, artisti e intellettuali spesso ne sono i più risoluti rappresentanti -; dall’altra, rivela l’involontaria complicità femminile, la predisposizione a lasciarsi soggiogare dal carisma di uomini non ordinari. L’artista brasiliana, poi, non lesina critiche a un certo femminismo di facciata ovvero troppo propenso a ricalcare modus operandi propri di quella stessa brotherhood che si vorrebbe infrangere…È davvero denso di idee, spunti di riflessione inediti, problematiche cocenti lo spettacolo di Bianchi, una sorta di prolungata – quasi quattro ore – immersione nel concretissimo immaginario dell’artista, uno spazio abitato da violente realtà primordiali mai davvero affrontate e da consapevoli schizofrenie individuali.







U>N>I>T>E>D di Chunky Move
La compagnia australiana Chunky Move è da oltre trent’anni protagonista della scena della danza contemporanea internazionale. Il suo direttore artistico e coreografo, Antony Hamilton, è stato autore di lavori all’avanguardia, caratterizzati da una sperimentazione audace ma mai fine a sé stessa e mirata anche a coinvolgere più intensamente il pubblico. Lo dimostra lo spettacolo presentato a Venezia, in cui si esplora la possibilità di convivenza fra passato – con un riferimento esplicito alla cultura aborigena – e futuro prossimo, allorché l’essere umano vedrà il proprio corpo implementato da protesi meccatroniche. I sei danzatori in scena, infatti, indossano complessi esoscheletri che essi stessi controllano e modificano, manovrandone le differenti parti. La coreografia, dunque, è costruita in parte sull’interazione fra i corpi dei performer, il loro apparato meccatronico e una struttura metallica che occupa lo spazio scenico. La figurazione fisica del complesso dialogo fra il passato – nella parte finale, alcuni dei danzatori si spogliano del proprio esoscheletro per ritrovare il contatto con la propria umanità – e il futuro è dipinto sul palcoscenico ispirandosi a un immaginario a metà fra videogiochi e classici della fantascienza quali Blade Runner. Coerente a questa impostazione, è la pulsante composizione musicale, affidata, come la cura del suono, al duo indonesiano Gabber Modus Operandi che, non a caso, mescola tradizione e musica contemporanea.

Fables di Virginie Brunelle
La coreografa canadese Virginie Brunelle, nata nel Québec nel 1982 e formatasi prima come musicista, porta sul palcoscenico veneziano uno spettacolo, Fables, con dieci danzatori e un pianista. Un susseguirsi di sipari visionari e in alcuni casi autenticamente perturbanti, dominati da figure femminili archetipiche ma riplasmate in chiave contemporanea e tutt’altro che miti. Ne è prova l’esordio del lavoro, con decise danzatrici in completo maschile nero impegnate in agguerriti corpo a corpo. C’è poi una candida sposa, inizialmente inerte come una docile marionetta ma successivamente disperata nel gridare letteralmente la propria umanità. Ci sono donne/streghe che, nascosta la parte superiore del corpo, testa compresa, da una tunica nera, si aggirano ghignando fra palco e platea brandendo un microfono a stelo anziché la consueta scopa. C’è una donna in tuta aderente color carne a rivendicare con dolce determinazione la propria non stereotipata femminilità e c’è un finale corale all’insegna di una ritrovata gioia di vivere, suggerita anche dagli scintillanti costumi di paillettes. Fables è, dunque, uno spettacolo inquieto e ironico, per certi aspetti noir e per altri, al contrario, fiduciosamente vitale, magistralmente incarnato dai dieci danzatori e accompagnato con complice adesione da Laurier Rajotte al piano, nell’ultimo sipario anche lui con casacca sbrilluccicante.
Biennale College Danzatori
Biennale College, ovvero il programma di laboratori intensivi che mirano a porre in contatto giovani talenti – danzatori e coreografi – con maestri affermati costituisce uno dei fiori all’occhiello di Biennale Danza, arricchendosi negli anni. In questa edizione i sedici giovani danzatori, scelti fra trecentocinque candidature internazionali, hanno avuto l’opportunità di lavorare con Sacha Waltz e con Ken e Anthony Matsena. La prima ha rimesso in scena con loro il suo In C, costruito sull’omonima composizione minimalista di Terry Riley (1964), eseguita dal vivo. Una coreografia precisissima, matematica, fondata su cinquantatré figure oggetto di un’improvvisazione normata però da regole chiare e stringenti, cui corrisponde un altrettanto scientificamente cadenzato disegno luci, creato anch’esso da Waltz. Ne risulta una prova non semplice per i giovani danzatori che hanno mostrato indiscusso talento, combinando il rispetto delle leggi della partitura con la propria personalità autoriale. Una maturità artistica evidente anche nel lavoro creato per loro dagli anglosassoni Anthony e Kel Matsena, The Remaining Silence, riflessione sull’assenza e sulla memoria.
Mostre e installazioni a Biennale Danza
Nell’ambito del Festival è possibile visitare Ecstatic Release!, la mostra che raccoglie i migliori scatti realizzati negli ultimi quattro anni (2021-24) da Indigo Lewin, giovane fotografa britannica in residenza alla Biennale Danza. Fotografie che, concentrate su particolari fisici – piedi, braccia, schiene – e oggetti apparentemente trascurabili – un reggiseno, una borraccia, il ghiaccio secco – ritraggono un attento ed empatico backstage degli spettacoli andati in scena nelle ultime edizioni della rassegna veneziana.
È stata, invece, inaugurata il 24 luglio On the Other Earth, installazione coreografica post-cinematografica ideata dal direttore artistico Wayne McGregor a partire dalla propria ultima creazione dal vivo, DEEPSTARIA. L’installazione, fruibile da gruppi di massimo 20 spettatori per volta, si svolge all’interno dello schermo nVis stereoscopico a 360 gradi, da 12k LED e 26 milioni di pixel. Uno spazio totalmente immersivo progettato da Jeffrey Shaw e Sarah Kenderdine, in cui le immagini panoramiche in 3D vengono vissute avvolti da un’architettura cilindrica larga otto metri e alta quattro. Progettata in collaborazione con gli artisti Ravi Deepres e Theresa Baumgartner, questa installazione consente a Wayne McGregor di combinare danza, coreografia, visualizzazione digitale, suono spazializzato e IA. L’installazione, dopo la Biennale Danza, sarà presentata nella sezione Venice Immersive dedicata alla realtà aumentata della 82. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, dal 27 agosto al 6 settembre.
Laura Bevione
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L’articolo "Creatori di miti. Reportage dalla Biennale Danza 2025 di Venezia" è apparso per la prima volta su Artribune®.