Da Kaliningrad alla Moldavia, la nuova geografia del confronto tra Mosca e Washington. L’analisi di Pellicciari

  • Postato il 4 agosto 2025
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  • Di Formiche
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Il duro scambio sui social media tra Donald Trump e Dmitry Medvedev va ben oltre la consueta polemica tra narrazioni contrapposte in tempo di guerra. Non solo per la rapidità con cui si è scivolati sul terreno delle minacce nucleari, con espliciti riferimenti all’uso di sottomarini strategici.

A colpire è il fatto che, per la prima volta dall’inizio del secondo mandato di Trump, sia andato in scena uno scontro verbale senza esclusione di colpi retorici tra i vertici dei due Paesi. Nello specifico, l’episodio inquadra la piega assunta dal conflitto in Ucraina; più in generale, anticipa i futuri fronti dello scontro tra Mosca e Washington.

Punto di non ritorno?

L’incidente segna una sorprendente novità, tanto nella postura americana quanto in quella russa. All’inedita personalizzazione della polemica da parte di Trump nei confronti di Vladimir Putin, il Cremlino ha risposto adottando lo stesso registro diretto e frontale. Invece di ricorrere ai consueti portavoce istituzionali (Maria Zakharova e Dmitry Peskov), la prima replica a Trump e Lindsey Graham — cruda e non filtrata — è arrivata da una figura di primissimo piano come Medvedev, uno dei soli tre presidenti della Russia nel periodo post-sovietico. Figura spesso sopra le righe e formalmente svincolata dai codici diplomatici, ma le cui dichiarazioni restano sistematicamente concordate con il Cremlino.

Si tratta a tutti gli effetti di un punto di rottura difficilmente ricucibile nei rapporti russo-americani, caduto proprio nel momento in cui — dopo la fase di stallo sotto la presidenza Biden — era stato riallacciato un filo di comunicazione diretta tra la Casa Bianca e il Cremlino. Un canale che, pur in assenza di un coordinamento esplicito, lasciava intendere una certa sincronia nelle rispettive mosse.

Tramonto diplomatico

Sul fronte ucraino, questa rottura segna il (forse definitivo) tramonto dell’ipotesi di una soluzione diplomatica al conflitto. Riposizionandosi apertamente al fianco di Kyiv, Trump si è intestato un conflitto dal quale aveva cercato di prendere le distanze in campagna elettorale. Inoltre, ha di fatto certificato lo stato di impasse in cui versano da mesi i negoziati.

Mosca, oggi forte di un andamento del conflitto percepito come favorevole — come ormai, seppur con notevole ritardo, riconoscono anche i principali organi del mainstream americano, dal Wall Street Journal al Financial Times, dal Washington Post al New York Times — non intende recedere dalle tre condizioni che considera premesse irrinunciabili per una pace “duratura”:
il riconoscimento dei territori occupati come parte integrante della Federazione Russa; la sostanziale demilitarizzazione dell’Ucraina; la sua neutralità sul piano internazionale.

Si tratta di richieste che Kyiv interpreta come una resa formale, e che non accetterà — indipendentemente da chi ne sia al vertice.
In questo contesto si intensificano le voci, mai ufficiali ma sempre più insistenti, su una possibile volontà americana di sostituire Volodimir Zelensky con il suo principale rivale: l’ex capo delle forze armate Valerij Zaluzhny, oggi ambasciatore a Londra. Una nomina che, secondo diverse letture, servirebbe più a proteggerlo da potenziali rappresaglie politiche interne che a rispondere a esigenze strettamente diplomatiche.

Conflitto congelato e nuovi fronti

In mancanza di una realistica soluzione diplomatica, la guerra sembra ormai destinata a risolversi sul campo di battaglia. Come previsto, la Russia ha intensificato — e con ogni probabilità continuerà — la propria offensiva militare durante i mesi estivi, spingendosi verso e oltre il fiume Dnepr, in funzione dell’estensione della buffer zone che il Cremlino intende stabilire a protezione dei territori annessi (che per le posizioni più oltranziste a Mosca dovrebbe includere anche Odessa e Kyiv).

Il punto è che la guerra non si concluderà con un accordo di pace, ma piuttosto con un congelamento del conflitto — ipotesi sulla quale l’Occidente sembra ora convergere, dopo mesi di attriti tra Bruxelles e Washington. Un frozen conflict, sulla falsariga di quanto già visto in altri contesti (Cipro, Moldavia, Kosovo, Nagorno-Karabakh), consentirebbe di rinviare a tempo indeterminato la chiusura del conflitto.
L’Occidente non riconoscerebbe lo status quo sul terreno, ma continuerebbe a sostenere — più politicamente che militarmente — l’ambizione ucraina di recuperare i territori perduti.

Una logica da Achille e la tartaruga, in cui la pace viene metodicamente rincorsa per evitare che venga effettivamente raggiunta.
Con un obiettivo implicito ma centrale: non dover ufficializzare la vittoria della Russia — un esito politicamente ingestibile per le leadership occidentali di fronte alle rispettive opinioni pubbliche.

Kaliningrad: minaccia o vulnerabilità?

Questa evoluzione, da un lato, rafforzerebbe nel lungo periodo la contrapposizione tra Russia (Brics) e Stati Uniti (G7), alimentando quella guerra delle narrative centrale per la tenuta del consenso interno delle rispettive leadership — e ormai difficilmente reversibile.
Dall’altro, sposterebbe il conflitto su piani diversi, rimodulandolo sia nelle modalità che nei teatri.

Accanto ai fronti tradizionali di confronto in Europa — come il Mar Nero e l’Artico — stanno emergendo nuovi scenari ad alta tensione, destinati a diventare snodi geo-politici centrali. Tra questi, l’enclave russa di Kaliningrad e la Moldavia. Kaliningrad occupa una posizione tanto strategica quanto strutturalmente instabile. Si tratta di un’enclave russa separata dal territorio continentale della Federazione, circondata via terra da Polonia e Lituania (entrambi membri Nato) e proiettata verso l’area sensibile del Mar Baltico.
Quest’ultimo rappresenta la principale linea logistica marittima per mantenere i collegamenti tra Mosca e Kaliningrad — una rotta oggi fragile, compressa tra le acque territoriali dei tre Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e dei due nuovi ingressi scandinavi nella Nato, Finlandia e Svezia. Un corridoio strategico che, da retrovia logistica, sta diventando un fronte di crisi.

Washington sembra intenzionata a utilizzare Kaliningrad come leva multipla: da un lato per mantenere alta la pressione su Mosca negli anni a venire, dall’altro come strumento negoziale per contenere l’influenza russa nel Mar Baltico e disinnescare eventuali ritorsioni contro i Paesi baltici — oggi particolarmente esposti, anche in ragione di posizioni intransigenti anti-russe come quelle dell’alta rappresentante Ue per gli affari esteri, Kaja Kallas.

Hanno una logica geo-politica più che militare le recenti dichiarazioni dei vertici Nato — coordinate con Washington — pronunciate dal generale statunitense Christopher Donahue, comandante delle forze terrestri dell’Alleanza in Europa. Donahue ha affermato che la Nato sarebbe oggi in grado di “neutralizzare Kaliningrad da terra in un tempo senza precedenti”. Segnando così un rischioso salto qualitativo nel messaggio di deterrenza rivolto a Mosca.

Moldavia: tra sogno europeo e realtà russa

Storica cerniera tra lo spazio ex sovietico e l’Europa, la Moldavia veniva definita già negli anni Novanta come “porta dei Balcani”.
Il Paese ha dimensioni contenute, ma una composizione interna altamente eterogenea che lo rende vulnerabile a pressioni esterne: dalla repubblica separatista della Transnistria, de facto controllata da Mosca, alla Gagauzia che rivendica maggiore autonomia, fino all’ampia quota di cittadini in possesso del doppio passaporto rumeno e a una diaspora numerosa all’interno dell’Unione europea (solo in Italia, si stima che i moldavi siano circa 200.000).

Il Paese più povero del continente, la Moldavia dipende in modo strutturale dall’assistenza esterna, al punto da essere diventata da decenni un terreno di competizione a bassa intensità tra aiuti occidentali e russi. Le fragilità istituzionali si riflettono in una leadership politica più fedele che solida — come quella della presidente Maia Sandu, incline ad assecondare le direttive di Bruxelles, ma sempre meno capace di tenere insieme le diverse anime della società moldava.

Destinataria di ingenti risorse in programmi di assistenza da parte dell’Unione europea — spesso oggetto di critiche per episodi di corruzione e gestione opaca — la Moldavia è nel frattempo silenziosamente diventata un nodo logistico chiave per il sostegno occidentale all’Ucraina. Un ruolo che, per quanto rilevante sul piano operativo, aumenta l’esposizione del Paese a contraccolpi geopolitici.

Nel tentativo di creare una distrazione strategica per il Cremlino rispetto al fronte ucraino, l’Occidente potrebbe spingere Chisinau ad adottare una linea più conflittuale nei confronti delle forze filo-moscovite in Transnistria, riattivando di fatto il conflitto congelato nella regione.

Sarebbe una scelta che non rafforzerebbe la Moldavia. Piuttosto la esporrebbe. E la candiderebbe — purtroppo — a diventare uno dei prossimi teatri di una proxy war tra Russia e Occidente.

Autore
Formiche

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