Dagli alieni in passerella di Thom Brown alle lucciole di Valentino e il debutto di Blazy da Chanel: i migliori look della Fashion Week di Parigi

  • Postato il 7 ottobre 2025
  • Moda E Stile
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Parigi ha chiuso la settimana della moda con un epilogo che rimette al centro metodo, materia e corpo. Niente fuochi d’artificio fine a sé stessi: ogni maison ha riallineato il proprio vocabolario sulla vita reale, chiamando in causa responsabilità e desiderio. Il risultato è un coro di voci diverse che parlano di lavoro, di processi e di come i vestiti – non l’idea astratta di stile – possano tornare a contare. Non c’è un “trend” unico, c’è una convergenza di metodo: mettere il corpo al centro, far parlare i vestiti, misurare la fantasia con la vita. Il resto – desiderio, fedeltà, acquisto – lo decideranno le persone per cui questi abiti sono stati pensati.

Al Grand Palais, trasformato in una volta celeste di pianeti sospesi, Chanel ha visto l’esordio di Matthieu Blazy alle 20 esatte, una puntualità a cui gli addetti ai lavori non sono abituati. L’attesa era stata costruita come un rebus: quattro fotografie di David Bailey (una nuca con carré, una camicia bianca, una casetta di carta, una poltrona) a evocare il numero quattro, cifra del “costruttore”. “Chanel, è l’amore. La nascita della modernità nella moda è il frutto di una storia d’amore… un’idea di libertà”, scrive Blazy, mentre riecheggia Gabrielle: “Non c’è tempo per la monotonia. C’è un tempo per lavorare e un tempo per amare”. In passerella la camicia bianca diventa alfa e omega, il tweed e il bouclé vengono scomposti e rimontati con linee sfuggenti ma precise; una T-shirt, asciutta, chiude look di alta sartorialità come gesto d’eleganza contemporanea. Gonne a portafoglio con orli incatenati e spacchi profondi trovano controcanto in blazer dalle maniche risvoltate, grandi spille fissano il baricentro, giacche corte si appoggiano a pantaloni ampi che non perdono mai il fuoco. Gli accessori, inevitabilmente, sono il focus: weekender in suede sabbia, derby lucidissime, una nuova borsa da far comprare a chi ha già tutti i modelli precedenti. Anche qui, come per Dior e Balenciaga, si è trattato di una sfilata programmatica, di un manifesto per dire al mondo ciò che Chanel può essere adesso.

Se Blazy costruisce, Alessandro Michele per Valentino ripulisce e semplifica, lavora di sottrazione rispetto ai suoi stessi codici e lancia una critica al conformismo. L’invito sono bastoncini fluorescenti, il titolo “Fireflies”, il riferimento dichiarato: Pasolini e la sua metafora delle lucciole. Michele ha messo così in scena una collezione che è un manifesto politico e poetico. Ispirandosi alla lettera del 1941 di Pier Paolo Pasolini, ha costruito una narrazione sulla necessità di trovare la luce nel buio: “La moda può diventare un’alleata preziosa. È suo il compito di illuminare ciò che ama nascondersi, portando in superficie timidi indizi di futuro”, ha scritto. In un’atmosfera dark, ha fatto sfilare abiti e giacche di paillettes argento, cardigan dorati e tuniche blu lucide, come costellazioni luminose. Una risposta al conformismo e alla nostalgia, un invito a “disarmare gli occhi e riaccendere lo sguardo”, perché, come dice citando Calvino, “non sono morte le lucciole. È morta la nostra capacità di vederle”.

Anche Miuccia Prada ha continuato la sua indagine socio-politica, dedicando l’intera collezione, “At Work”, al lavoro femminile. Protagonista assoluto, il grembiule: “E’ il mio pezzo di abbigliamento preferito”, ha confessato la stilista, “sono ossessionata. Simboleggia le donne, dalle fabbriche ai servizi, alla casa. È protezione e cura, un simbolo dello sforzo e della fatica delle donne”. Nel Palais d’Iéna, trasformato con tavoli di Formica in una “domestica istituzione”, il grembiule diventa abito lungo o mini, pezzo identitario da esibire. Il cortocircuito materico è la tesi: drill industriale e pelli robuste contro cloqué di seta e pizzo ricamato; popeline e tele grezze passano per ricami, uncinetti, increspature che nobilitano l’ordinario. Rouches e fiocchi – segni del “femminile” stereotipato – vengono ribaltati in dispositivi di autonomia, anche nel menswear. Calzature intrecciate primi Duemila, borse “muscolari”, accessori funzionali: una bellezza industriale che parla di durata. È un manifesto pragmatico sull’autodeterminazione.

Pelagia Kolotouros per Lacoste sposta l’attenzione nello spogliatoio: “The Locker Room”, all’Hall Eiffel del Lycée Carnot, sotto il tetto di vetro progettato da Gustave Eiffel. Le sedute sono asciugamani arrotolati, l’apertura è un tuffo nel rosso terra battuta. “Volevamo quel momento sospeso tra azione e riposo”, sottolinea la direttrice creativa. La collezione racconta il dopo-agonismo e il prima di ogni gesto: la polo sbottonata, la tuta allentata, l’adrenalina che si decanta. Proporzioni educate, layering undone consapevole, tessuti che privilegiano mano, traspirazione, vestibilità. È sport come stato mentale che entra nel quotidiano senza travestimenti, con la disciplina del gesto che diventa stile.

Andreas Kronthaler per Vivienne Westwood sceglie il riciclo come gesto d’autore e una dichiarazione quasi mistica: “Posso raccontare due vite precedenti: un soldato romano e una regina di Francia”. La collezione, come la nuova fragranza, si chiama Boudoir e nasce “dai vecchi profumi di Versailles”. “Mi sono innamorato di tessuti italiani trovati nei mercati; li abbiamo combinati con stampe di maison, riutilizzando scarti”, confida lo stilista. Pelli traforate effetto pizzo, ricami riesumati dai cassetti, stampe floreali sfacciate, stratificazioni che mescolano trame e colori senza pudore, come si faceva a corte. “Volevo che tutto sembrasse semplice e vissuto — né vecchio, né nuovo — abiti veri che appartengono a chi li indossa”.

Thom Browne, nell’ex studio di Karl Lagerfeld in rue de l’Université, orchestra una parabola fantascientifica con piedi ben piantati nel tailoring. Si immagina una colonia di extraterrestri che “arriva in pace” vestita come noi, ma più libera nello styling. Giardino alla francese, Vangelis in colonna sonora, make-up metallico. Il codice preppy viene smontato e ricomposto fino al teatro: giacche impeccabili trasformate in corazze, gonne a palloncino come microcosmi mobili, cricket knit compressi, tweed e seersucker lucidati dalla messa in scena; pantaloni con gambe soprannumerarie che costruiscono volumi da panier; giacche in strisce tenute da zip. La tavolozza scivola tra grigi polverosi, ciliegia, blu siderale e pastelli. È un ossimoro calibrato: disciplina americana e fantasia aliena, Luigi XIV che stringe la mano a E.T., dove l’abito resta centro, anche quando narra. Dulcis in fundo, spazio per uno dei giovani talenti più promettenti della scena: Niccolò Pasqualetti, che ha fatto sfilare al Palais de Tokyo una collezione sartoriale con il giusto equilibrio tra sperimentazione e portabilità. “Ci deve essere corrispondenza tra te e ciò che indossi… per una vita impegnata i vestiti non devono essere troppo complicati”, dice. La sua PE 2026 incrocia “ciò che è giusto e deliberatamente sbagliato”: richiami a Serra, al Memphis di Peter Shire, a Barbara Hepworth, tradotti in capi che respirano – pantaloni ampi ma contenuti, tuniche di pannelli patchwork cuciti con leggerezza, gilet a maglia dai bottoni asimmetrici, frange e intrecci manuali.

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Il Fatto Quotidiano

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