Dai disegni alla letteratura: così i volontari della scuola di Eraldo Affinati insegnano l’italiano agli immigrati

  • Postato il 1 luglio 2025
  • Cronaca
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Una cosa che ancora mi stupisce dopo tanti anni? Il fatto che alla fine della lezione ci ringraziano sempre, si rendono benissimo conto del fatto che è importante imparare una lingua, che serve per integrarsi”. Francesca F., ex assistente sociale in pensione, alla scuola romana Penny Wirton, dove volontari insegnano gratuitamente l’italiano alle persone immigrate “senza classi, senza voti, senza burocrazie”, ci è arrivata un po’ per caso, tramite un’amica di un’amica. Ma una volta iniziato non si è più fermata. E da sette anni, due pomeriggi a settimana, esce di casa, prende i mezzi e arriva alla scuola fondata dallo scrittore Eraldo Affinati e da sua moglie Anna Luce Lenzi, studiosa e traduttrice. Gli studenti arrivano da tantissime parti del mondo povero, molti vengono dall’Egitto, spesso minori, talvolta mandati contro la loro volontà – “forse avrebbero preferito rimanere con i propri amici e in famiglia”, nota Francesca – perché minorenni. Ma arrivano anche dal Bangladesh, dalla Palestina e poi dall’Africa, dal Marocco, dalla Tunisia, Algeria, Suda, Gambia, Nigeria.

Ma come insegnano i volontari? Prima di partire, anzitutto, fanno un corso preparatorio di quattro ore per capire il metodo da seguire anche se poi ogni persona è diversa. Premessa per insegnare è anche la conoscenza della Carta d’Intesa, dove si ricorda che la scuola è apartitica e aconfessionale e che le lezioni si basano su una rigorosa didattica finalizzata all’insegnamento della lingua. Per insegnare, invece, ci sono due manuali che hanno scritto i fondatori, che si utilizzano a scuola e che non vengono portati a casa. “Sono libri che partono dal come si scrive una singola lettera”, spiega Francesca F., “perché tanti studenti sono analfabeti nella loro lingua, quindi non hanno idea di cosa voglia scrivere e leggere. Magari vengono da nazioni anglofone o francofone, ma non sanno quelle lingue”.

I volontari utilizzano giochi didattici, disegni, lettere magnetiche, partendo da parole base come pasta, latte, parti del viso etc. “Anche se Affinati sottolinea sempre come sia fondamentale che si parli solo italiano, se qualcuno sa l’inglese o il francese ricorriamo a questo aiuto. Ci sono vocabolari ma non tutti sanno leggere, magari sanno l’arabo ma non scritto”, nota la volontaria.

Alla Penny Wirton non esistono vere e proprie classi, perché la caratteristica della scuola è quella di avere un volontario per ogni studente, cioè un rapporto uno a uno, “poi, certo, a volte capita che ce ne siano due contemporaneamente – il che è complicato, possono essere uno del Bangladesh e uno del Sudan, anche se spesso si aiutano”.

Al momento, ci sono circa novanta tra studenti e volontari, ma ci sono stati periodi in cui si arrivava a centoventi. Si sta tutti in uno grande stanzone dato in comodato d’uso dalla Regione. “Durante la pandemia è stata durissima, la scuola ha chiuso, ma noi abbiamo continuato con la Dad anche se era complicatissimo”, racconta sempre Francesca F. “I ragazzi avevano i cellulari neanche propri, magari del direttore del centro. E quando siamo potuti rientrare avevamo le mascherine, era molto difficile, ma la scuola non si è mai fermata”.

Ma chi sono i volontari? C’è un po’ di tutto. Uomini e donne, giovani e meno giovani. Ci sono casalinghi e impiegate, pensionate e pensionati, “c’è una psichiatra e un medico, una grafica e una persona che si occupa di informatica, un contesto variato. Ci sono anche alcuni studenti delle scuole superiori”.

Quali motivi spingono i volontari a insegnare? “C’è chi lo ritiene una cosa politicamente importante, chi lo fa per motivi religiosi, ma al di là delle diverse motivazioni conviviamo molto bene, perché l’obiettivo è comune e non ci sono tensioni”, dice Francesca che racconta, anche, esempio, come molti si vergognino del fatto di non essere in grado di rispondere alle richieste degli insegnanti. A volte invece “non rispondono perché hanno paura di sbagliare, specie quando si tratta di uomini adulti che hanno pudore a mostrarsi incapaci. Ma noi li tranquillizziamo tutti, sono persone che hanno percorsi difficili, alcune sono passate dalla Libia”, commenta la volontaria. L’apprendimento varia a seconda della provenienza della famiglia di origine, alcuni comunque “sono molto curiosi e in un anno e mezzo riescono a prendersi la terza media”. Molto dipende anche dai problemi che hanno, “ho avuto uno studente marocchino che mi diceva ‘non ce la faccio, ho troppi pensieri, la mia famiglia è lontana, mio fratello è morto nel viaggio’. Insomma dipende dalle condizioni in cui si trovano. Ricordiamo loro che, se che hanno superato quei terribili passaggi, le botte, le torture, sicuramente ce la faranno”. Restano tutti? “Qualcuno se ne va, sparisce, ma poi ritorna magari dopo un anno”.

“Sono un’ex assistente sociale – conclude la volontaria –, quindi l’impegno verso chi ha un disagio lo sento; ma lo faccio anche per motivi politici, o ancora meglio democratici, perché credo che l’integrazione sia indispensabile. Insegnare agli stranieri dà delle grandi emozioni, anche perché dopo poco che hai a che fare con persone così diverse ti rendi conto che non sono così diverse da te. Questa scuola ci fa sentire tutti uguali”.

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Il Fatto Quotidiano

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