Dalla guerra con l’Iraq alle trattative con Trump: così l’Iran usa il programma nucleare come mezzo di “deterrenza asimmetrica”
- Postato il 13 giugno 2025
- Cronaca
- Di Il Fatto Quotidiano
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Giusto poche ore prima che partisse l’attacco israeliano all’Iran, che ha colpito tra gli altri obiettivi anche l’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, il Consiglio dei governatori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) aveva approvato una risoluzione che, per la prima volta in ventidue anni, dichiara l’Iran inadempiente rispetto agli obblighi derivanti dal Trattato di non proliferazione nucleare. Il testo, promosso da Regno Unito, Francia e Germania con il sostegno degli Stati Uniti, sollecita Teheran a fornire “risposte senza indugio” sull’indagine avviata anni fa sulle tracce di uranio rinvenute in siti non dichiarati. Secondo i Paesi occidentali, queste tracce potrebbero indicare l’esistenza di un programma nucleare segreto iraniano interrotto nel 2003.
Nei giorni scorsi, con il presidente americano Donald Trump che definiva “più difficile” la prospettiva di un nuovo accordo con l’Iran, Teheran aveva escluso colloqui diretti finché non fosse stata scartata l’opzione militare. Mentre sui media statunitensi tornavano a farsi sentire le voci di un possibile attacco israeliano ai siti nucleari iraniani. Teheran aveva risposto per bocca del ministro della Difesa, Aziz Nasirzadeh, minacciando ritorsioni dirette contro Israele e contro le basi americane nella regione. Il presidente iraniano aveva ribadito che il Paese “non vuole la bomba atomica, come stabilito dalla Guida Suprema”, ma respinge ogni imposizione esterna: “Abbiamo diritto alla ricerca e nessuno può ordinarci di smantellare tutto”. Permane incertezza anche sulla data del prossimo round di colloqui indiretti: l’Iran parla del 15 giugno a Mascate, mentre Trump aveva indicato il 12.
Per comprendere la situazione, è utile ripercorrere le tappe del dossier nucleare iraniano, che per Washington e Tel Aviv rappresenta soprattutto un elemento della capacità di deterrenza e influenza regionale dell’Iran, insieme al suo programma missilistico e all’ascendente sulle milizie sciite. Tutti aspetti che Teheran considera fondamentali per la propria strategia difensiva. Negli anni ’90, l’Iran esce stremato da otto anni di guerra con l’Iraq e avvia un programma missilistico nazionale, temendo un possibile “regime change” orchestrato dagli Stati Uniti. Isolato sul piano regionale e in netta inferiorità militare convenzionale, Teheran sviluppa una strategia di deterrenza asimmetrica, rafforzando la propria “profondità strategica” attraverso il sostegno ad attori non statali a maggioranza sciita.
Dopo l’11 settembre, in un breve spiraglio di distensione durante la presidenza riformista di Mohammad Khatami, Teheran collabora con gli Usa contro i Talebani, fornendo persino supporto logistico. Ma nel 2002 arriva la svolta: George W. Bush inserisce l’Iran nell’“Asse del Male”, segnando la fine del disgelo. Proprio in quell’anno, l’opposizione iraniana in esilio rivela l’esistenza dei siti di Natanz e Arak. Sebbene allora l’Iran non fosse legalmente obbligato a dichiararli, l’Aiea avvia un’indagine, portando Teheran nel 2003 ad accettare le nuove regole di notifica anticipata dei siti nucleari. Con la presidenza Ahmadinejad, poi, il confronto con l’Occidente si radicalizza. Viene diffusa l’immagine di un Iran deciso ad acquisire l’arma atomica, non per deterrenza, ma per minacciare Israele. Teheran ribadisce invece il carattere civile del programma e, pur sotto durissime sanzioni, insiste nel diritto all’arricchimento dell’uranio.
Il punto centrale è proprio questo: l’arricchimento dell’uranio può servire sia a scopi civili che militari, e il Trattato di non proliferazione non fissa un limite esplicito. Per questo l’accordo del 2015 (Joint Comprehensive Plan of Action), firmato da Iran e 5+1, fu accolto come un successo diplomatico: in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni, Teheran accettava ispezioni rafforzate e limitava l’arricchimento al 3%. Una garanzia efficace per impedire lo sviluppo della bomba. Con Trump alla Casa Bianca, però, tutto cambia. L’uscita unilaterale degli Usa dall’accordo nel 2018, anche su pressione israeliana, ne vanifica gli effetti. L’Iran risponde violando le restrizioni, riprendendo l’arricchimento oltre il 3% e installando nuove centrifughe. Oggi è tornato al 60%.
Trump, nel secondo mandato, insiste per un “accordo migliore” e avverte che solo una dichiarazione di rinuncia completa al programma nucleare potrà scongiurare un attacco. È un approccio che riflette la sua visione negoziale: presentare richieste massimaliste, anche con minacce, per partire da una posizione di forza. Ma una simile strategia ignora la logica iraniana, fondata sulla sopravvivenza del regime e sulla parità negoziale.
Resta il sospetto che Trump voglia ottenere una vittoria diplomatica da vendere come successo personale. In questo senso si inserisce anche la momentanea distanza tra lui e Netanyahu, fautore di un attacco militare che Israele però non può realizzare da solo. Non ha né le bombe bunker-buster necessarie né la capacità di reggere da solo un’eventuale risposta iraniana. Trump sembra preferire un’intesa parziale che lasci fuori il dossier missilistico e il sostegno agli alleati regionali iraniani, in cambio di limiti rinnovati all’arricchimento e qualche rimozione simbolica delle sanzioni. Un compromesso che potrebbe presentare come un trionfo diplomatico, evitando un conflitto che persino lui, probabilmente, vuole scongiurare, nonostante le pressioni di Netanyahu.
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