Dalla lupara ai salotti
- Postato il 25 ottobre 2025
- Editoriale
- Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella
Le mafie italiane non cercano più di piegare lo Stato: lo attraversano. Da minaccia esterna a infrastruttura invisibile della decisione pubblica, la loro evoluzione ha ridefinito il rapporto tra criminalità organizzata e potere istituzionale. Ciò che un tempo appariva come un assalto armato allo Stato è diventato un processo di integrazione progressiva, nel quale la legittimazione sociale, la reputazione e la capacità di mediare l’accesso contano più dell’intimidazione. La metamorfosi non è suggestione giornalistica, ma risultanza giudiziaria: è scritta nelle motivazioni delle sentenze, negli atti delle procure distrettuali, nelle relazioni della DNA.
Per comprenderla bisogna tornare agli anni in cui il dominio mafioso aveva ancora il volto della violenza. Il biennio 1992-1993 rappresentò il picco della strategia corleonese: Capaci e via D’Amelio non furono solo attentati, ma negoziazioni esplose in forma di barbarie. La mafia non voleva distruggere lo Stato: voleva costringerlo a riconoscerla come interlocutore. Lo hanno chiarito anni dopo i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Palermo nella sentenza di secondo grado sulla Trattativa, laddove affermano che le stragi furono «strumento per ricattare lo Stato e ottenere un canale di interlocuzione politica». La Cassazione, pur intervenendo nel 2023 con una diversa valutazione giuridica del concorso degli ufficiali dei ROS, ha confermato il dato storico: l’interlocuzione ci fu. Non “eccezione”, ma prototipo.
È da lì che inizia la mutazione. Quando la violenza diventa controproducente – perché rende visibile il patto – la mafia cambia grammatica. Dal dominio della paura passa al dominio dell’accesso.
Il salto concettuale è fotografato con precisione nella sentenza ‘Ndrangheta Stragista (Corte d’Assise di Reggio Calabria, presidente Ornella Pastore; giudici a latere Giannicola e dott. Majone), che definisce la ‘ndrangheta «soggetto politico dotato di capacità strategica di interlocuzione sistemica con centri di potere». Non più antistato, ma contro-stato dall’interno. Il PM Giuseppe Lombardo, nella sua requisitoria finale, ha usato parole che segnano un punto di non ritorno: «L’organizzazione non cerca più lo scontro, ma la legittimazione. La sua forza non è nel farsi temere, ma nel farsi riconoscere».
La metamorfosi produce un ribaltamento strutturale: un tempo la mafia controllava il territorio per condizionare lo Stato; oggi controlla le relazioni che orientano l’accesso alle decisioni pubbliche. La pistola non sparisce: diventa superflua. Il potere non è più nella minaccia, ma nella selezione silenziosa di chi entra e chi resta fuori.
Il processo Aemilia, celebrato al Nord e concluso con condanne definitive, ha documentato questo cambio di paradigma in modo quasi didattico. La mafia non è penetrata nelle imprese attraverso estorsioni: è stata chiamata. La Corte, nella motivazione presieduta da Francesco Maria Caruso, scrive che «l’imprenditoria non è vittima passiva, ma parte attiva della relazione collusiva, laddove l’ingresso della criminalità organizzata risponde a convenienze economiche strutturali». Non paura: opportunità. Non assoggettamento: compatibilità.
Ed è qui che nasce la “zona grigia”: non il confine, ma il ponte. Non l’area dove la mafia si insinua, ma il luogo dove viene riconosciuta come soggetto utile. La Direzione Nazionale Antimafia, nella relazione annuale 2022, usa un’espressione chirurgica: «agenzia di servizi». La mafia diventa funzione, e quando è funzione smette di essere percepita come minaccia.
Il caso Pittelli – figura chiave di Rinascita Scott – è emblematico. Non un boss, non un affiliato, ma un facilitatore relazionale. La DDA Gratteri-Lombardo lo definisce «interfaccia qualificata tra ambienti criminali e centri istituzionali». Non serve al clan per sparare: serve al clan per essere accreditato. Il suo potere non è l’intimidazione, ma la traduzione. È l’uomo che rende dicibile ciò che è indicibile. Senza quest’ultimo passaggio, la mafia resterebbe corpo estraneo; con esso, diventa soggetto ammissibile.
La sentenza Gotha, sempre a Reggio Calabria, mostra il livello successivo: qui non si indagano solo uomini, ma infrastrutture di legittimazione. Le logge deviate e i circuiti riservati non sono contorno, ma spina dorsale di un’accettazione sociale che sostituisce l’omertà popolare con l’omertà elitaria. La mafia non cerca consenso: cerca rango. Riduce la distanza, cancella l’alterità, diventa partner.
Questo spiega perché il Nord sia stato il laboratorio più efficiente della mutazione. Nel Sud, per decenni, l’organizzazione è stata percepita come potere antagonista; al Nord, invece, è stata riconosciuta come “opportunità relazionale”. Lì non minacciava il mercato: lo ottimizzava. Non violava la procedura: la orientava. Non entrava dalla porta secondaria: si sedeva al tavolo prima che la porta fosse costruita.
La chiave è tutta qui: oggi la mafia non occupa il territorio, occupa l’anticamera. Non entra nella gara, entra nell’istruttoria. Il nuovo Codice dei Contratti Pubblici lo mostra in modo quasi antropologico: se controlli i requisiti, non hai bisogno di controllare l’aggiudicazione. Il potere sta nel decidere chi può giocare, non chi vince.
Per questo motivo, il contrasto tradizionale basato sulla repressione militare appare oggi insufficiente. L’arresto del soldato non incide sulla rete di legittimazione. La vera rottura avviene quando si colpisce il “ponte”, non il braccio. Finché la reputazione resta intatta, la struttura rinasce.
Ed è precisamente su questo punto che si apre il ponte narrativo verso ciò che accade oggi: se la mafia non ha più bisogno di farsi temere, ma di farsi accreditare, la vera frontiera non è più la giustizia penale, ma il riconoscimento sociale. Il passaggio dalla pistola al curriculum è già avvenuto. Resta una domanda: chi oggi beneficia della sua legittimazione?
Se la mafia non ha più bisogno di sparare è perché non ha più necessità di intimidire: oggi le basta essere riconosciuta come interlocutore. La sua forza non è nella minaccia, ma nella legittimazione. In passato otteneva obbedienza creando paura; oggi ottiene accesso offrendo utilità. Per anni abbiamo raccontato la mafia come dominio della forza; oggi è dominio della reputazione. Finché è “credibile”, non deve essere temuta. È questo ribaltamento ad aver trasformato un’organizzazione criminale in un’infrastruttura invisibile del potere.
La nuova frontiera non è militare ma simbolica: la mafia non conquista più il territorio, conquista l’abilitazione sociale. Se un tempo era il pizzo a misurare la sua presenza, oggi lo è la facilità con cui entra nei processi preliminari delle decisioni pubbliche senza più apparire. Non forza la porta: diventa custode della chiave. Il boss non è più il vertice appariscente, ma l’ombra che legittima la relazione.
Da qui nasce la centralità dei facilitatori, cioè le figure-ponte che rendono “socialmente ammissibile” l’ingresso della criminalità nei processi di governo economico e amministrativo. Non sono uomini d’onore: sono professionisti rispettabili. Avvocati, notai, ex funzionari pubblici, consulenti tecnici, dirigenti amministrativi. Il loro ruolo non è “proteggere” il clan, ma renderlo compatibile: tradurre un interesse criminale in linguaggio istituzionale. La mafia del passato aveva bisogno dell’intimidazione; quella presente ha bisogno di chi le apre la porta.
Ed è proprio qui che la metamorfosi raggiunge il suo punto più maturo: non si tratta più di corrodere lo Stato dall’esterno, ma di diventarne infrastruttura discreta. L’organizzazione non combatte più la legalità: la utilizza. Non abbatte le regole: le anticipa, agendo nei loro spazi ciechi. Entra dove la legge non guarda ancora, nel momento in cui il procedimento non è ancora pubblico ma è già reale.
La pubblica amministrazione diventa così non il luogo da violare, ma il luogo da presidiare. Non più una roccaforte da espugnare, ma un anticamera da abitare. Qui il potere non è nell’aggiudicare, ma nel predisporre. Nel decidere chi ha titolo per partecipare. Nell’individuare — prima della gara — chi è “dentro” e chi è “fuori”. Nelle pieghe della preistruttoria nasce l’asimmetria invisibile che sostituisce la violenza.
La zona grigia, a questo punto, non è più una frattura fra crimine e Stato: è un’area di cerniera dove i ruoli si contaminano. Non è più la zona dove la mafia si insinua, ma quella dove viene attesa. Non perché spaventa, ma perché è utile. Dove manca lungimiranza istituzionale, la mafia offre scorciatoia; dove manca responsabilità amministrativa, offre efficienza relazionale; dove manca trasparenza, offre opacità come servizio.
Finché la scorciatoia è più premiante della regola, la mafia non appare come minaccia, ma come soluzione. E quando il sistema la percepisce come soluzione, la sua presenza smette di essere eccezionale: diventa fisiologica. È in questo passaggio che l’invisibilità diventa potere.
Da questo punto in avanti non è più l’intimidazione a garantire la sopravvivenza mafiosa, ma la domanda sociale di scorciatoia. La mafia prospera dove la collettività rinuncia alla fatica della legittimità e preferisce la rapidità dell’accesso mediato. La sua forza è proporzionale alla debolezza del desiderio di trasparenza. Non invade un territorio: riempie un vuoto morale prima che giuridico.
Ecco perché la risposta non può più essere solo repressiva. Gli arresti colpiscono i soldati; la rete di legittimazione resta. Finché il facilitatore mantiene dignità pubblica, la struttura criminale resta rigenerabile. Oggi non si spezza più la mafia distruggendo il braccio operativo, ma togliendo prestigio sociale all’intermediazione opaca. L’antimafia del futuro non è quella che reprime, ma quella che disinnesca riconoscimento.
La nuova frontiera è l’antimafia della reputazione: non un gesto simbolico, ma un cambio di paradigma. Significa spostare l’attenzione da “chi commette il reato” a “chi rende possibile il reato senza apparire”. Significa riconoscere che la mafia moderna non ha bisogno di complicità dichiarate, ma di relazioni rispettabili che le permettano di circolare invisibile. Non serve la forza per governare: è sufficiente la rispettabilità.
A questo punto la domanda non è più “quanto è forte la mafia?”, ma “a chi conviene che resti?”. Finché la convenienza supera la legalità, la criminalità organizzata non è un’anomalia del sistema: è un suo fattore competitivo. La società non la subisce: la incorpora. Non è più l’avversario: è il moltiplicatore dell’opacità.
Ed è qui che la responsabilità diventa culturale prima che giudiziaria. Falcone e Borsellino combatterono una mafia che sfidava lo Stato dall’esterno; la nostra generazione affronta una mafia che lo abita dall’interno. Allora la resistenza era visibile e coraggiosa; oggi è silenziosa e civile. Allora il problema era la paura; oggi è la compatibilità. La mafia non si insedia dove lo Stato arretra, ma dove la società smette di desiderare trasparenza.
Per invertire la rotta serve una rivoluzione silenziosa: rendere la legalità conveniente. Fare della trasparenza non un dovere formale, ma un vantaggio sociale. Solo quando la regola diventa scorciatoia positiva, la mafia perde appeal. La lotta non è contro l’illegalità: è contro il prestigio che l’illegalità ottiene quando accede ai luoghi del potere.
Il giorno in cui la società smetterà di considerarla “utile”, la mafia tornerà marginale. Perché la mafia non sopravvive finché è temuta, ma finché è funzionale. È riconosciuta non quando impone, ma quando fornisce ciò che un sistema non riesce più a produrre con mezzi legittimi: velocità, accesso, intermediazione, riconoscimento. Toglierle questo ruolo significa toglierle ossigeno.
Ed è proprio qui che si apre la prospettiva finale: la mafia non sarà sconfitta da un’operazione di polizia, ma da una ricostruzione culturale. Non cadrà perché qualcuno le spara contro, ma perché nessuno sarà più disposto ad ammetterla nei luoghi in cui oggi la fa passare. Non verrà espulsa dalla legge: verrà espulsa dalla coscienza civica.
La sua fine inizierà non quando i boss verranno arrestati, ma quando il corpo sociale tornerà a preferire la trasparenza alla scorciatoia. Quando l’accesso non dipenderà più dall’intermediazione nascosta ma dalla reputazione pubblica verificabile. Quando un Paese deciderà che la dignità comune vale più della convenienza privata.
Perché la mafia non ha vinto quando ha sparato: ha vinto quando non ha più avuto bisogno di farlo. E perderà quando non avrà più nessuno disposto a riconoscerle un posto nella stanza dove si decide.
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