Dario Brunori: sogni, famiglia e progetti futuri del cantautore calabrese
- Postato il 14 giugno 2025
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Dario Brunori: sogni, famiglia e progetti futuri del cantautore calabrese
Dario Brunori si apre all’Altravoce il Quotidiano tra sogni, progetti futuri, racconti e senso di appartenenza alla famiglia e alla Calabria, confermando, ove ce ne fosse bisogno, la sua calabresità
«PURTROPPO non sono riuscito a sfuggirvi», ci dice con la sua solita ironia, appena entrato nei suoi studi, nella sua sala prove all’Università della Calabria. Look casual, pronto per una sessione di prove con la sua band prima di una lunga serie di concerti, Brunori Sas si è raccontato dopo l’ondata di successo che lo a travolto negli ultimi mesi. Una simpatia disarmante e la tipica sapienza di un uomo colto sono i suoi tratti distintivi, uniti alla sua penna raffinata e alle ottime abilità da musicista. E poi l’umiltà. Dario Brunori è così da sempre ed è rimasto tale anche dopo la popolarità che un Festival di Sanremo può portare. Non si è lasciato trascinare; anzi, ha trascinato ed ha portato con sé anche le sue radici.
Il terzo posto al Festival di Sanremo, le classifiche globali, il Circo Massimo e l’Arena di Verona. Ti aspettavi questo successo?
«No, questo tipo di riscontro no, devo dire la verità. Nonostante il mio ego smisurato, il mio narcisismo. Più che altro, in relazione al mio percorso, che è stato sempre un percorso legato alla scrittura, la mia unica ambizione al Festival era far ascoltare le mie canzoni ad un pubblico più ampio rispetto a quello che avevo raggiunto fino a quel momento. Perché chiaramente il mio era pur sempre un percorso più di nicchia, legato alla canzone d’autore. E poi c’era il desiderio di un riconoscimento da parte della critica, inutile negarlo. E sono contento del premio ricevuto, perché ci tenevo molto a quel testo. Poi è chiaro che tutto quello che è venuto dopo, soprattutto il podio, è stato totalmente inaspettato e sorprendente e anche molto divertente. È stato anche sorprendente questo entusiasmo da parte di tutte le Calabrie. Mi piace dire le Calabrie perché effettivamente ci sono tante anime all’interno della Calabria e non sempre vanno d’accordo. E invece in qualche modo, per tramite di questo percorso, c’è stata questa unione delle Calabrie e tutti mi abbiano sostenuto. Questo è stato sorprendente e anche entusiasmante per me».
Hai raccontato che i tuoi discografici sono venuti in Calabria per dirti “andiamo a Sanremo”. Noi ce li immaginiamo questi discografici milanesi che vengono a San Fili e tu, con il tipico modo di fare calabrese che dici: “un caffè? Vi faccio assaggiare la soppressata”…
«Non solo il caffè e la soppressata! Innanzitutto devo dire che i miei discografici, pur stando a Milano, sono comunque di origini meridionali, sono campani, quindi chiaramente giocavamo già abbastanza facile. Poi c’era anche il discorso di questa ospitalità, quasi come se fosse una logica interiorizzata: se viene l’ospite lo dobbiamo trattare bene, a prescindere. In quel caso mi faceva piacere che vedessero il contesto in cui abbiamo realizzato l’album. Ho scritto questo album in campagna da me, tra i Cervicati e San Marco e ci sono voluti due anni per farlo. L’abbiamo registrato lì perché questo studio qui (all’Unical; ndr) l’abbiamo realizzato da poco ed è uno studio mobile. Abbiamo spostato tutto questo studio in campagna e mi faceva piacere che vedessero anche i luoghi in cui è nato il disco, per fargli capire qual era il background. Poi è chiaro che gli abbiamo anche dato un po’ da mangiare e soprattutto da bere perché io ho una cantina… Tra l’altro ragionare nel post-pranzo di quello che dovevamo fare non era facile, quindi, la scelta di andare a Sanremo potrebbe non essere stata lucida in quel momento (ride; ndr). Però sono contento di averla fatta».
In questo studio mobile è nato L’albero delle noci e l’omonima canzone. Brano che hai definito la classica canzone ruffiana che un padre scrive ad una figlia.
«È stata una canzone fortunata per tanti aspetti. Sicuramente c’è la paura quando faccio quella battuta. Perché da una parte cerco sempre, per tramite dell’ironia, di scansare l’eventuale critica, ma anche perché è una bella sfida quando scrivi una canzone che è un po’ un cliché. Ma sono contento di questo brano perché penso che sia una canzone sulla figlia e quindi sull’essere padre, ma in realtà è una canzone che non è tanto dedicata alla figlia quanto ad una condizione, e nella quale ho cercato di raccontare le radici. Lì a racconto per esempio della terra d’appartenenza, delle radici e quindi in qualche modo mi sono giustificato. Se fosse stata solo una canzone per Fiammetta forse me la sarei tenuta per me».
Però com’è stato tornare dal Festival e scoprire che tua figlia cantava Tony Effe?
«Quello è stato un colpo al cuore ma anche una presa di coscienza di quello che mi aspetta. Poi in realtà si è innamorata di Serena Brancale, di Willy Peyote e quindi, a un certo punto, facevamo il Festival di Sanremo a casa. Io dovevo fare Carlo Conti e lei faceva tutti gli altri cantanti, tra l’altro cantava anche “L’albero delle noci”. Quindi comunque la canzone le è piaciuta ma soprattutto perché, quando c’è il pezzo che fa “splende una piccola fiamma”, fa segno a chi ascolta: sono io la piccola fiamma».
Hai parlato di radici e a proposito, tempo fa ci avevi raccontato che stavi provando ad inserire nel merchandising la scirubetta. Non ci sembra di averla vista…
«Beh perché purtroppo tecnicamente è molto difficile. Abbiamo parlato con dei vecchi nivari per capire come poter fare ma è abbastanza complicata la faccenda e siccome non volevo inserire dei prodotti finti, non di stagione, per il momento l’abbiamo accantonata. In compenso probabilmente avremo dei cappelli quest’estate con su scritto “Musciaria”, perché vorrei in un mondo frenetico portare avanti questo termine che mi è sempre piaciuto molto. Quindi il prossimo gadget sarà il cappello Musciaria. Lo voglio dire qui a scopo anche di marketing».
Ovviamente, perché sei sempre affezionato al alle campagne marketing…
«Al lucro, sono affezionato al lucro! (ride; ndr)»
Hai sempre ammesso di aver iniziato a fare il cantautore proprio per guadagnare…
«Beh, d’altronde Brunori Sas… quando me lo chiedono, per onestà intellettuale, sono l’unico che dichiara il vero intento di ogni artista».
Però Sas riprende anche in questo caso le tue origini, l’azienda di famiglia.
«È inevitabile. Non faccio mai un’apologia della famiglia in senso stretto perché ci sono anche tanti rischi, non solo perché può diventare retorico o perché può diventare anche un po’ troppo legato alla mia esperienza personale, però inevitabilmente la famiglia c’entra, le radici c’entrano. Quello che ho cercato di fare a Sanremo, mi è venuto spontaneo, è stato raccontare alcune cose che non erano note di folklore, era l’idea di raccontare un po’ di cultura popolare. Qualcosa anche per dare una narrazione diversa da quella solita. E molti colleghi calabresi che erano lì a Sanremo mi hanno detto “per la prima volta non mi sono nascosto” o “ho detto sono calabrese”. Questo perché sicuramente ci portiamo dietro una forma di subordinazione. Per carità, non sono un neoborbonico, però mi piace l’idea che ci sia un equilibrio, cioè di andare a parlare nei contesti in un rapporto che sia alla pari. E quindi non mi piace né l’apologia della calabresità, né mi voglio sentire meno. Ci sono tante cose belle da raccontare, e perché non raccontarle?»
Continuando a parlare di Calabria, hai detto in un’intervista che Camigliatello Silano è la nuova Seattle. E San Fili che cos’è?
«Io sogno San Fili come una sorta di Repubblica di San Marino. Perché è collocata logisticamente in maniera tale che se riusciamo a mettere delle frontiere – perché ormai è un periodo storico in cui è bello mettere delle frontiere, ergere dei muri, e sto andando anche io in quest’ottica – se i cosentini vogliono andare al mare e anche quelli che dal mare vogliono venire a Cosenza devono passare da San Fili e pagare delle corbe, delle tasse. Insomma, cercheremo di monetizzare e fare una sorta di Gran Ducato di San Fili. Questo è il mio desiderio. Quindi mentre Camigliatello è Seattle, è il futuro, San Fili la facciamo ritornare ad una visione più da feudalesimo. Mi piace la provocazione perché è una provocazione poetica, è chiaro che si fa per ridere. Poi alcuni mi hanno pure insultato come se fossero cose serie. Io frequento molto il mondo anche di Franco Arminio e di tutti i poeti che seguono quest’idea della paesologia che è chiaro che è una provocazione, ma può essere anche concreta. È un modo di pensare alla vita che non è sempre legata al grande centro. I ragazzini da noi vivono con il mito magari della grande città, è normale, l’abbiamo vissuto tutti, è giusto che uno abbia anche desiderio di guardare e di conoscere e di vedere altro. Però anziché vivere in un contesto e dire “mamma mia dove sto” tutti i giorni, si può dire “potrebbe anche essere il futuro”; già che ti cambi questa visione secondo me è una cosa interessante».
Inoltre a San Fili si trova proprio l’albero delle noci. Noi sappiamo che in Calabria, in questo periodo, dal punto di vista del turismo c’è stato un boom di presenze. Sono tutti sotto casa tua a vedere l’albero.
«Sì, ci sono dei pellegrinaggi. Io ogni tanto appaio, benedico da lontano (ride; ndr). Linda (Cribari; ndr), la sindaca di San Fili che è una mia amica, aveva giustamente messo le luci all’albero. C’erano anche le mie foto, una sorta di culto della personalità, era come Saddam Hussein, avevo le foto mie sul palazzo e c’era la gente che veniva. Ma la cosa più bella era vedere le persone che si facevano il selfie con l’albero, che tra l’altro non è neanche un albero da cartolina e questo mi piace ancora di più. Un selfie con un albero penso che sia uno dei massimi traguardi che un artista può pensare». (GUARDA IL VIDEO)
Anche questo è poetico.
«Eh beh direi proprio di sì. Poi è chiaro che mi suonano al campanello e quello è meno poetico».
Ma tu esci dalla finestra e urli “Popolo brunoriano!”?
«Ogni tanto lo vorrei fare, ogni tanto vorrei anche uscire fuori con la classica bacinella d’acqua, con il cato come mi suol dire, ma non lo faccio quasi mai».
Tornando invece alla musciaria, un professore americano ha istituito un corso di assoluto relax: gli studenti vanno lì e imparano a rilassarsi. Pare che stiano tutti in silenzio a guardarsi. Ti immagini una musciaria così?
«Ma certo. Credo che anche questa sia una provocazione da parte di un docente perché va nella direzione di togliere questa tensione competitiva su tutti i piani che è diventata incredibile. La prima tensione competitiva poi secondo me è proprio nei confronti della macchina. Parlo di cose che non hanno a che fare solo con l’aspetto tecnologico, perché quell’aspetto lì secondo me sta spingendo proprio gli umani all’imitazione della macchina e quindi è una tensione irrealizzabile. Per questo sono convinto che ci sarà sempre di più in futuro una parte di umanità che cercherà di emanciparsi da questo stress costante di impegno da tutti i punti di vista, quello fisico, quello emotivo. Cioè anche la meditazione diventa una cosa che devi fare, ti strutturano la giornata. Allora chiaramente il relax può essere il far niente, stare seduti. Ma stare seduti con se stessi è una cosa molto complicata da reggere, in questo momento ma in generale e si cerca sempre un modo per essere in movimento e quindi distrarsi da sé».
Portandola su un piano più grande e più serio, se i grandi leader mondiali ogni tanto si rilassassero e pensassero un po’ anche a guardarsi dentro, poi verrebbe fuori la parola pace?
Ma certo. Il punto è che è chiaro che tutti siamo d’accordo a parlare di pace. Concordo con tante menti illuminate che nel corso dei secoli hanno detto sempre la stessa cosa: ciò che succede all’umanità a livello macro è ciò che succede a livello micro in ognuno di noi. Se noi ci portiamo una guerra dentro, poi quella guerra si manifesta anche all’esterno. Quindi è chiaro che della pace ce ne dobbiamo occupare ma, come dire, occupiamoci anche delle condizioni per le quali poi siamo sempre in guerra. Per le quali si scelgono o vanno avanti i leader che hanno e portano avanti una dimensione legata alla paura, legata a tutto ciò che è periferico nell’uomo. Quindi è chiaro che l’intenzione è proprio quella, lavorare su se stessi, tanto».
Quindi è sbagliato pensare che tu, anche davanti a questo enorme successo che hai avuto, il fatto che comunque sei spesso qui in Calabria, che nei tuoi posti, nei tuoi luoghi, riesci probabilmente con un po’ di musciaria a guardarti dentro, a rilassarti, questo ti fa diminuire la paura del successo?
«Sì, ma io non ho paura del successo. Una cosa che è stata illuminante è stata per esempio un’intervista di Troisi dove lui diceva che è una fesseria che il successo cambia le persone, il successo è un amplificatore. In realtà se sei uno scemo diventi più scemo. Poi il successo è diverso dalla fama, dalla popolarità, sono due concetti diversi. Anche questo spesso cerco di sottolineare, soprattutto quando faccio gli incontri nelle scuole: una cosa è la fama, la popolarità una cosa è un successo. Il successo è un percorso che porta ad un traguardo. Per me il successo è aver raggiunto la popolarità ma con un percorso che ha rispettato i miei tempi, la mia identità, quello che sono. Anche stare qui in Calabria per me vuol dire salvaguardare. Qui trovo la mia dimensione, il mio ritmo e la mia capacità di osservare le cose del mondo da un punto di vista che evidentemente può essere interessante anche per uno di Milano. Magari se vado a Milano non è più interessante».
Con noi ci sono anche i giovani di Unical Voice e prima che arrivassi ognuno raccontava il proprio ricordo con te. Quando si parla di una persona nota, se ciascuno ha un ricordo personale vuol dire che in qualche modo, in qualche tempo c’è stato un sorriso, un contatto una parola che ha fatto pensare questi giovani che tu non fossi lì solo per farti vedere ma che considerassi la loro presenza. Ti succede anche al contrario, con la gente che incontri?
«Si mi succedeva un po’ di più prima, adesso chiaramente è più difficile perché ti devi un attimo anche schermare. Ma dipende dai contesti, in alcuni si riesce a creare una dimensione più umana. A Sanremo invece è stata una cosa pittoresca. Penso che mi sono fatto un sacco di risate perché lì c’è una sorta di follia collettiva. Là è chiaro che il contatto che tu hai con le persone non è un contatto umano. In generale però cerco sempre di trovare delle situazioni nelle quali riesco anche a nutrirmi pure io».
Visto che siamo ritornati sul Festival di Sanremo e visto che noi c’eravamo, una cosa ci è rimasta impressa: quando hai detto che volevi partecipare all’Eurovision solo perché volevi vestirti come Achille Lauro.
«Sì perché abbiamo lo stesso stylist che è Nick Cerioni. E ogni tanto quando vado da Nick poi vado a rovistare tra le cose di Achille Lauro e provo a mettermele ma ancora, nonostante i miei sforzi per entrare in forma, non riesco. Ci sono riuscito con una camicia e devo dire che stavo alla grandissima. Però ora Lauro ha cambiato stile, io sono più amante del primo Lauro».
La tutina dorata?
«Esatto, la tutina dorata. Quindi gli ho detto, se non le usi più tu facciamo uno scambio. Facciamo vestire Lauro come Brunori e Brunori come il vecchio Lauro e secondo me funziona».
Ma tu non sai che noi a Sanremo abbiamo parlato con il tuo stylist, lo abbiamo intervistato e lui ci ha raccontato la gente lo ferma per dirgli che oramai sei diventato un sex symbol.
«Sì, confermo, sono diventato un sex symbol. Secondo lui sono considerato un Husband Material».
E come ti senti in questo ruolo?
«È il mio ruolo da sempre devo dire la verità, mi dispiace solo che la gente se ne sia accorta adesso. Questo è l’effetto della televisione. Io sono sempre stato un sex symbol però ero un sex symbol di provincia, adesso grazie alla tv sono diventato husband material».
Adesso sei impegnato con le prove del tour. Raccontaci un po’ di questa tournée nelle location estive e poi delle due date con l’orchestra.
«Stiamo provando proprio in questi giorni, oggi pomeriggio (11 giugno; ndr) facciamo le prove che non sono le generali ma quasi, perché ovviamente non c’è qui l’orchestra ma abbiamo una simulazione dell’orchestra. Sono molto contento degli arrangiamenti che hanno realizzato Mirko Onofrio e Stefano Amato, due dei musicisti della Sas che sono anche gli arrangiatori, che hanno diretto tra l’altro a Sanremo. Sono meravigliosi, hanno cucito dei vestiti che pur rispettando la natura della canzone le rendono nuove. Quindi sono curiosissimo di fare queste due date una il 18 giugno al Circo Massimo di Roma e l’altra il 3 ottobre all’Arena di Verona. Ci stiamo preparando a questo concerto secondo una logica molto legata alla natura delle canzoni, quindi farò come una sorta di racconto. Ovviamente essendoci l’orchestra ho cercato anche di prediligere quelle canzoni che sono un po’ più introspettive, più da ascolto, da seduta. Mentre per il tour estivo, andremo un po’ più sul movimentato. Ma sempre nella musciaria. Insomma la musciaria è una mezza musciaria. Lì sarà un po’ più divertente, più ritmato chiaramente con la solita band che mi ha accompagnato anche nel tour nei palasport, e ci saranno anche le due date calabresi, a Diamante il 7 e l’8 di agosto. E lì speriamo, anche perché fino ad ora non l’ho fatto in Calabria, di celebrare tutto questo affetto che c’è stato».
Visto che lo hai citato, Stefano Amato, sai che è stato proclamato il direttore d’orchestra più bello?
«Si».
Lo accetti?
«No. Lo licenzio».
Il Quotidiano del Sud.
Dario Brunori: sogni, famiglia e progetti futuri del cantautore calabrese