De Meo chiude con Renault, il fantasma di Marchionne riappare sull’auto europea

  • Postato il 16 giugno 2025
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Un filo rosso unisce Sergio Marchionne e Luca de Meo. Il punto d’unione nasce da qualcosa di più profondo della nazionalità o dei ruoli ricoperti in Gruppi sull’orlo del collasso: la convinzione che l’industria dell’auto europea fosse entrata in un vicolo cieco. Una macchina burocratica disconnessa dal prodotto, dalle fabbriche, dalla domanda. E la volontà, diversa ma altrettanto radicale, di sfidare quel sistema.

Come padre e figlio

Il rapporto tra i due è documentato da chi lo ha vissuto in prima persona: de Meo stesso. “Abbiamo sempre avuto relazioni che, prima di tutto, erano professionali. Ma la verità è che, sul lavoro, siamo stati un po’ come padre e figlio, disse in un’intervista a Il Sole 24 Ore, sottolineando quanto Marchionne sia stato decisivo per l’inizio della sua carriera. Fu proprio l’allora ad di Fiat ad affidargli le prime responsabilità dirigenziali, aprendogli la porta d’ingresso ai livelli più alti: “Senza di lui sarei rimasto fuori dalla stanza dei bottoni ancora a lungo”.

In quegli anni de Meo lavora al rilancio del brand Fiat e al progetto 500, gestisce il marketing strategico, imposta un linguaggio visivo e commerciale vitale per le sorti del Gruppo. Si costruisce una reputazione fuori dall’Italia. E proprio quella visibilità sarà una delle chiavi che gli spalancheranno i cancelli del Gruppo Volkswagen. Prima Seat, poi Cupra.

La figura del maestro era fatta di disciplina e pressione costante. Ma, al tempo stesso, capace di emozioni forti, come dimostra un episodio eloquente: “Lo convinsi, quando lanciammo la nuova 500, a un incontro con bambini che facevano domande. Era un sabato mattina, in periferia di Torino. Alla fine si divertì molto e quasi si commosse”. Era il 2007. Fiat cercava di riconquistare desiderabilità. Il CEO in carica la rimise in marcia attraverso posizioni nette. Fece della 500 un oggetto pop globale, mentre de Meo, dietro le quinte, costruiva il linguaggio che dava senso a quel ritorno.

Lo strappo: i tedeschi e l’Alfa

Poi la frattura. De Meo lascia Fiat e va al Gruppo Volkswagen. “Ritenevo che la missione in Fiat fosse conclusa, e per il progetto nascente, il progetto Alfa Romeo, non vedevo il supporto da parte del management alla strategia di sviluppo del marchio”. Non fu una semplice scelta di carriera. Fu un gesto di sfiducia verso una parte del management italiano. Una decisione che lasciò il segno anche in Marchionne. Il manager meneghino lo aveva ammesso: “Ho motivo di ritenere, anche se non ne abbiamo mai parlato, che se la sia un po’ presa”. Da lì le strade divergono. L’asse però resta lo stesso: il confronto con un sistema che sta cambiando le regole senza ascoltare chi produce.

Sergio Marchionne ha guidato Fiat dal 2004 al 2018. Ha fuso l’azienda con Chrysler, portato Jeep nel mondo, rilanciato Ferrari, trasformato un Gruppo moribondo in un impero integrato. Così è sorto un colosso che nel 2017 contava oltre 4,7 milioni di veicoli venduti, con margini operativi in crescita costante. La logica? Ridurre la frammentazione, puntare su piattaforme comuni, tagliare i costi di sviluppo senza svuotare l’identità dei marchi.

A differenza di molti suoi colleghi, respingeva sia il consenso dei salotti sia l’applauso politico. Cercava la tenuta industriale. Il suo metodo era ruvido, privo di concessioni cerimoniose. In compenso, i risultati arrivarono, e proprio su quei numeri si basa ancora oggi buona parte della solidità di Stellantis (nonostante le incertezze sugli stabilimenti italiani), nata anche grazie alle fondamenta da lui gettate. Tutto questo senza mai allinearsi alle logiche imposte da Bruxelles.

La reazione alle difficoltà

Marchionne era allergico alla retorica ecologista, ostile agli obblighi normativi imposti dall’alto, critico verso l’elettrico a comando. Non fu mai anti-innovazione. Fu anti-ideologia. E lo disse apertamente: “Se dobbiamo investire miliardi in una tecnologia che il mercato non vuole, qualcuno dovrà pagarne il prezzo. E non sarà l’industria”. Rifiutava il dogmatismo green come unica via contemplabile. Nostalgie del motore termico erano estranei ai discorsi. Era un pragmatico che voleva spazio per decidere. E lo fece fino all’ultimo respiro. Morì a 66 anni, nel luglio 2018, dopo un ricovero improvviso. Stava ancora lavorando al futuro di FCA. Non ha mai lasciato il tavolo.

Luca de Meo prende le redini di Renault nel 2020. Trova un Gruppo in crisi, reduce dallo tsunami Ghosn, con conti da risanare e un’identità da ricostruire. E lo fa. Promuove il piano Renaulution, razionalizza, rilancia Dacia, dà senso ad Alpine, crea un nuovo asse elettrico con Ampere. Quindi, l’annuncio: le dimissioni. E il contestuale addio al mondo delle quattro ruote. Il comunicato ufficiale evidenzia che cercherà “nuove sfide al di fuori del settore automobilistico”.

Il contesto è chiaro. Nessuna fuga da Renault, quanto semmai un abbandono totale. De Meo ha detto più volte che l’Europa ha smesso di credere nell’auto come progetto culturale. Insieme a John Elkann aveva lanciato l’allarme nei mesi scorsi: “L’Europa rischia di diventare irrilevante nella nuova era dell’automobile”. Era inevitabile. Il sistema ha smesso di rispondere ai produttori. Si piega ai legiferatori. E De Meo, alla pari Marchionne prima di lui, ha provato a cambiare le cose da dentro. Solo che a un certo punto ha capito che era inutile.

Due strategie, una diagnosi

Marchionne ha reagito alla crisi del sistema con la sfida frontale. De Meo ha preferito uscire nel momento in cui la politica è stata sostituita da una gestione regolatoria soffocante. Lo aveva già denunciato pubblicamente. Il punto non è il coraggio, ma la lettura della realtà. Marchionne operava in un mondo dove si poteva ancora fare leva sul vecchio sapere. De Meo ha trovato un sistema già inchiodato alla logica delle norme.

L’uscita di de Meo segna la fine di una leadership che vedeva nell’industria un progetto di identità e potere. Marchionne e de Meo avevano in comune una visione: costruire prodotti, potere contrattuale. Oggi compliance e marketing hanno la priorità. Marchionne è morto dentro la macchina. De Meo ne è uscito prima che lo inghiottisse. Nessuno dei due ha vinto. E allora resta una sola domanda, che pesa più delle altre: se nemmeno loro sono riusciti a cambiare le cose, chi resta in grado di farlo?

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