Democrazia vs autocrazie, quale modello di governo vincerà in futuro?

Le sussultorie vicende del presidente Trump hanno confermato, anche alle persone più sprovvedute, che circola nel mondo una gran voglia di decisionismo e di verticalizzazione del potere. Con una intensità che viene da domandarsi se non sia in corso un processo storico più profondo – e più pericoloso – di crisi della democrazia, e di corrispettivo crescente appeal delle autocrazie. Chi vincerà nei prossimi decenni fra questi due modelli di governo?

Da parte mia, forse per scarsa conoscenza dei sistemi a conduzione autocratica mi sono convinto che siamo noi, fedeli seguaci delle democrazie liberali, che dobbiamo con urgenza fare un esame di coscienza e di revisione critica del nostro modello di sviluppo sociopolitico. In fondo nel 1945, dopo lo smantellamento delle ambizioni hitleriane, eravamo di fatto dei vittoriosi; e ancor più lo eravamo nell’89 con la caduta del Muro di Berlino e il disfacimento delle ambizioni sovietiche. E allora perché ci sentiamo oggi in difficoltà, di fronte al crescere di un paradigma di governo basato sulla “forza” (economica, finanziaria, militare, tecnologica, eccetera)? Dobbiamo reagire con urgenza, ma prima dobbiamo domandarci perché i Paesi a democrazia rappresentativa hanno perso la forza propulsiva del 1945 e del 1989 e si sentono oggi marginalizzati da una dinamica socio-politica basata sul primato della forza e non delle regole democratiche.

Per rispondere a questo quesito si deve tornare alle radici, ai tre valori fondanti della cultura occidentale: il valore della libertà individuale, quello della collettiva partecipazione ai processi decisionali e quello del rispetto delle regole della democrazia rappresentativa. Chi ha vissuto la Seconda guerra mondiale sa bene, e spesso ricorda con emozione, che l’Italia “diventò” democratica, europea e occidentale perché avevamo vissuto le attese e le gioie dell’arrivo dei “liberatori”; dei portatori di libertà; perché avevamo costruito con entusiasmo processi di partecipazione collettiva allo sviluppo (nelle vicende dei coltivatori diretti come in quelle dei sindacati operai); perché avevamo visto che gli scontri politici molto accesi si potevano gestire e regolare con adeguate forti procedure democratiche.

Alla soglia degli anni Duemila, noi italiani e noi europei occidentali eravamo un popolo di grande vigore e spessore, forse anche di grande ambizione. Ed è stata forse questa ambizione che ci ha fatto sentire depositari di una formula magica, da proporre ed esportare ovunque, magari anche con operazioni militari. Tranne che nelle aree prima dominate dall’Urss tale opera di esportazione non ha avuto successo, scontrandosi spesso – caso per caso – con antichi e solidi valori di potere religioso, di storia collettiva, di circoli autocratici locali. Abbiamo fatto di un modello di sviluppo una pesante dinamica di etnocentrismo occidentale, oggi rimosso da molti Paesi.

Ne paghiamo oggi le spese, ma temo che ancor più pagheremo l’errore storico di non aver adeguatamente gestito quel patrimonio di valori, quel che ci aveva consentito le vittorie del 1945 e del 1989. Avevamo vinto sull’enorme appeal del concetto di libertà; ma col tempo siamo scivolati verso una sua concezione “libertaria” e soggettivista – si pensi alle fughe in avanti nella dialettica di genere – che riduce di molto la solidità della nostra cultura collettiva di fronte all’esplosione della “forza”. Avevamo avuto un grande successo nel coltivare il policentrismo del potere e il ruolo dei soggetti collettivi; e invece siamo scivolati verso una loro progressiva decostruzione, per vizi di corporativismo e spesso di personalizzazione. Avevamo avuto una grande affermazione, anche sul piano emotivo, delle regole di democrazia rappresentativa; e invece siamo di fronte a un disinteresse collettivo, con fenomeni di astensionismo e fughe in avanti verso famose forme di democrazia diretta. Alla fine, se siamo stati noi stessi a svilire i valori fondamentali della nostra storia sociopolitica, non possiamo dare la colpa a chi la attacca e spesso la definisce come debole, inerte, parassitaria, e quant’altro: la colpa è nostra.

Formiche 213

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Formiche