“Denunciammo Phica.net già nel 2019, ma nessuno fece niente. La legge sul Revenge porn non basta, bisogna fermare la violenza digitale”

  • Postato il 29 agosto 2025
  • Diritti
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 5 Visualizzazioni

La violenza sessuale digitale può avere impatti non meno forti di una violenza fisica. E non solo viene ancora sottovalutata, ma gli strumenti legislativi italiani non sono attrezzati per far fronte a quello che avviene sul web. Tanto che chiuso un gruppo o un forum, ce ne sono ancora altre decine dove si ripetono gli stessi atti. “Già nel 2019 denunciammo quello che succedeva sul sito Phica.net, ma nessuno fece niente”, racconta a ilfattoquotidiano.it Silvia Semenzin, sociologa e attivista che lavora per la ong Ai Forensics e da anni si batte per la sensibilizzazione sulla violenza di genere online e non solo. Autrice insieme a Lucia Bainotti di “Donne tutte puttane” (Durango edizioni), sei anni fa è stata tra le principali promotrici della legge che ha introdotto il reato di Revenge Porn. Ora chiede che almeno le istituzioni si rendano conto del problema e inizino a parlarne.

Il gruppo Mia Moglie è stato creato su Facebook nel 2019. Il sito Phica esisteva da 20 anni. Perché se ne parla solo ora?
In realtà c’è una regolarità. Tendenzialmente sono le attiviste che si infiltrano, mai le istituzioni, ed espongono questi tipi di gruppi. In passato ci sono stati due grossi casi di Telegram, uno nel 2019 e l’altro nel 2021. Poi c’è stata una lunga pausa, coincidente anche con l’arrivo del governo Meloni. A scuotere l’opinione pubblica stavolta è il fatto che questo gruppo fosse su Facebook: di solito sono più nascosti, invece qui tutti sono entrati e vedere con i loro occhi. Però il fenomeno non è un’urgenza del momento.

Non la è?
Non è un’eccezione, ma un fenomeno sistemico che accade da veramente tanti anni. Phica.net è un sito di cui già io e Lucia Bainotti ci siamo occupate nel 2019. Già allora aveva tutte le sezioni, addirittura una si chiamava Revenge Porn: noi avevamo fatto la segnalazione alla Polizia Postale e l’avevamo scritto nel nostro libro. Nonostante questo nessuno se ne è mai interessato veramente. Lo abbiamo portato addirittura nelle sedi politiche, ma ci hanno risposto che volevano ragionare sulle singole vittime e non sul fenomeno di gruppo. Quindi c’era anche una volontà politica di negazione. Adesso torna fuori perché, grazie ai social network, parlano le vittime ed è un bene.

Una sezione specifica chiamata Revenge porn e nessuno fece niente?
Sì, venne oscurata dopo l’approvazione del Codice Rosso, ma esisteva. Era una sezione dove, si entrava, e le donne erano divise per città con nome e cognome. Anche in questi giorni, mettendo nella barra di ricerca la parola ex o ex fidanzata veniva fuori una marea di materiale simile.

Quindi era chiaro che il sito fosse molto di più di uno spazio di condivisione di porno amatoriale?
C’era anche una sezione spy, dove insegnavano come posizionare le telecamere nascoste. Dicevano: “Vado in questo negozio, mi dite come metterle nei camerini?”.

Perché nessuno agì?
Da qui nasce la mia frustrazione. Io presentai la cosa a Laura Boldrini che provo a portarla all’interno del Codice rosso, ma poi cadde tutto nel vuoto. Noi sono anni che ci sbracciamo dicendo: guardate che questi gruppi ci sono ancora. La verità è che non interessa, a meno che non venga fuori il putiferio: devono esserci veramente migliaia e migliaia di persone che richiedono attenzione. Poi si pensa di risolvere il problema chiudendo il sito e si mette una pietra sopra. Perché parlare di violenza di genere è impossibile in questo Paese.

E la polizia postale intervenne?
No. Dissero che non potevano fare niente.

Il reato di Revenge porn non basta?
La legge al momento è assolutamente incompleta. È un articolo striminzito, copiato male dall’articolo sullo stalking che sostanzialmente dice che verrà punito con 7 anni di carcere e salatissime multe chi condivide senza consenso il materiale intimo di qualcun altro. Inoltre è onere della vittima dimostrare il dolo specifico della violenza.

Ed è complesso?
La vittima deve dimostrare che chi ha inviato quelle foto l’ha fatto con l’intenzione di causare un danno. Questa violenza, nella maggior parte dei casi, non avviene fra due persone, ma tendenzialmente ha la matrice del gruppo. Se tu trovi le tue foto su Phica.net, per esempio, come fai a dimostrare che una persona le ha messe per danneggiarti se non sai chi è stato? E soprattutto come fai a denunciare gli altri? Senza contare che non si fa alcun riferimento alle tecnologie e a come tutta questa violenza sia in una dimensione digitale. Addirittura la legge parla di aggravanti nel caso di donne in gravidanza e non cita i minori. Ma perché dovrebbe essere un aggravante se sei incinta? E’ stato visto che nell’80% dei casi le vittime non ricevono giustizia quando denunciano, vuol dire che la legge non sta funzionando.

La legge non copre la violenza digitale?
Non c’è nulla. Non si parla di tutte le violenze che hanno a che fare con il linguaggio misogino, le molestie e lo stupro digitale. Ma neppure di Deep Fake Porn (ndr pornografia falsificata), nonostante con l’arrivo dell’intelligenza artificiale i casi siano aumentati del 500%. Parliamo di strumenti molto semplici, tanto che su Phica.net c’erano dei tutorial. E nel 99% dei casi le vittime sono donne perché se chiedi di farlo su un corpo maschile semplicemente non funziona. E i casi, soprattutto tra i giovanissimi, sono sempre di più.

Cosa si dovrebbe fare?
E’ urgente un intero disegno di legge sulla violenza sessuale digitale. Ad esempio, in Inghilterra è reato creare dei deep fake porn senza il consenso. Noi dobbiamo ancora iniziare a parlarne. Nei prossimi anni ci sarà l’applicazione della la direttiva europea sulla violenza domestica che prevede quattro forme di violenza digitali e l’Italia sarà obbligata a dotarsi di leggi ad hoc. Però sarebbe il caso che i cittadini lo sapessero.

C’è una mancanza di consapevolezza della violenza digitale?
Io mi sorprendo come ancora le persone pensino che questo tipo di violenza sia minore rispetto ad altre forme. Ma l’impatto psicologico, sociale e a volte anche fisico è enorme. Tantissime persone e, quasi sempre di più, purtroppo, oggi negano l’esistenza della violenza di genere. Figuriamoci quella digitale. Quando io parlo di stupro digitale, non avete idea degli insulti che ricevo perché oso comparare lo stupro a quello che succede online.

Si può comparare?
La matrice è la stessa: come in tutte le violenze l’obiettivo non è mai sessuale, ma è di controllo. E’ una questione di prendersi il potere sul corpo. Nella società digitale in cui tutti abitiamo, il corpo esiste anche nel digitale. La nostra reputazione online ha un grandissimo impatto sulla nostra vita reale. Se io so che 700.000 uomini mi hanno vista nuda, anche se con una foto finta e mi hanno commentata in 500 dicendo che cosa mi vorrebbero fare, è chiaro che mi sento umiliata, sminuita, impaurita, proprio come dopo uno stupro. Non ho i segni addosso nel corpo, ma ce li ho nella psiche. A volte è anche più pervasiva quel tipo di violenza: non sai chi ti ha visto, non sai quando smetterà perché quella violenza potenzialmente continua per sempre. Ad esempio, il 51% delle vittime di condivisione non consensuale di materiale intimo pensa al suicidio come forma di uscita dalla violenza. E anche le vittime di deep fake hanno le stesse identiche conseguenze. Ovvero attacchi di ansia, di panico, problemi alimentari, depressione, autocensura dei social, a volte rifiuto da parte della famiglia, degli amici. Un impatto enorme che devono subire principalmente le donne.

I gruppi che esercitano questo tipo di violenza sono composti quasi sempre da uomini?
Non esiste un equivalente femminile. A volte ci sono delle donne che partecipano ai forum maschili, ma tendenzialmente sono sex workers che magari vogliono pubblicizzare i propri profili. Le donne non lo fanno perché questo ha a che vedere con come ci insegnano la sessualità: a noi non viene insegnato a consumare gli uomini in questo modo.

Cosa possono fare le istituzioni? Non è rischioso parlare di limitazione e regole in rete?
Mettere sul tavolo il problema, piuttosto che negarlo, già sarebbe un ottimo inizio. Noi abbiamo sempre chiesto responsabilità delle piattaforme digitali, ma non me la posso aspettare da chi governa se va a braccetto con Elon Musk. In Europa negli ultimi due anni sono stati fatti dei passi in avanti interessanti. Penso al Digital Services Act (Dsa) che è anche quello imparziale, però è un passo importante per regolamentare le piattaforme che superano i 45 milioni di utenti al mese. Facebook, per esempio, potrà essere multato per l’esistenza di questi gruppi come Instagram, TikTok, YouTube. Queste piattaforme sono obbligate a seguire un regolamento di trasparenza e soprattutto di mitigazione dei rischi.

Perché Facebook ci ha messo così tanto a chiudere il gruppo Mia Moglie?
Perché loro lucrano sulla violenza online e fa loro molto comodo quando ci sono questi traffici di dati. Hanno agito solo quando hanno iniziato a fioccare le denunce. Di gruppi simili poi, sempre su Facebook, ne esistono tantissimi.

E le regole non valgono anche per siti più piccoli come Phica.net?
Restano fuori dal Digital Serve Act. Ma anche Telegram che dichiara sempre sotto i 45 milioni di utenti al mese. Bisogna pensare di estendere i controlli anche a queste realtà, in particolare quelle pornografiche. Vanno obbligati alla trasparenza e alle verifiche che il materiale condiviso sia legale. Fanno finta che la gente non guardi il porno, quando è praticamente il maggior mercato del web.

Il fatto che ci fossero foto di politiche farà sì che ci sia una maggiore mobilitazione dei partiti?
Probabilmente ci sarà proprio perché ci sono finite personalmente delle politiche. Ma poi se ne dimenticheranno perché da una parte non solo non interessa la questione tecnologica, ma non c’è neanche la competenza. Non hanno idea di cosa bisognerebbe fare.

L’approvazione del reato di femminicidio è un segnale di interesse del governo alla violenza di genere?
No, io penso che sia stata una risposta a un caso gigantesco come quello di Giulia Cecchettin di fronte al quale bisognava fare qualcosa. In realtà, non hanno fatto niente, hanno inasprito delle pene senza guardare a quali sono le cause dei femminicidi, delle violenze di genere in generale. E’ una bandierina per dire “a noi delle donne interessa”. E per dire che i femminicidi tendenzialmente li commettono gli immigrati. Ora come difenderanno questi 700mila utenti italiani che erano iscritti al sito Phica.net?

Tutti gli ultimi interventi dei governi, dal Codice rosso in poi, sono stati in chiave repressiva.
Bisognerebbe lavorare sulle cause culturali educative e invece c’è un rifiuto dell’educazione sessuale di genere che viene sempre più censurata e bandita. Negli anni scorsi ho girato per le scuole con l’associazione “Virgin adn Martyr” e abbiamo notato che, dall’arrivo di questo governo in poi, è diventato sempre più difficile entrare e parlare di educazione sessuale. Siamo stati bloccati da presidi e genitori, ma anche abbiamo incontrato sempre più ragazzi che si dichiaravano anti-femministi. Ma noi parliamo di consenso, educazione alle emozioni. Ci sarebbe bisogno di fare dei percorsi lunghi, mentre siamo il fanalino di coda dell’Europa. Vicino a noi c’è solo l’Ungheria.

Come si rende il mondo maschile più consapevole del problema?
Bisogna arrivare a un patto tra generi, in cui anche gli uomini si allineino di più alle nostre rivendicazioni e sensibilizzino altri uomini. Il momento globale politico è complesso, perché abbiamo un ritorno antifeminista molto forte. Però il femminismo non è una questione di sesso biologico, è culturale, quindi tutti gli uomini possono essere femministi, così come tante donne sono ancora molto antifemministe e molto misogine.

A una donna che ha trovato la sua foto in uno di questi siti cosa consiglia di fare?
La prima cosa che le direi è non sei sola e non è colpa tua. Lo diamo per scontato, ma non lo è. Anche perché l’umiliazione, la rabbia, la sofferenza, tutte le emozioni che senti in quel momento sono molto difficili da digerire. La seconda cosa è di chiedere a qualcuno di fidato supporto per non rimanere da soli e valutare se procedere a fare una denuncia. Io invito sempre a farlo, ma so che non tutte le donne hanno le possibilità. Nel caso in cui si volesse fare la denuncia, invito a rivolgersi ai centri antiviolenza, dove di solito questi servizi vengono forniti in maniera gratuita. Poi ci sono il collettivo Clara, che supporta le vittime di violenza online, e Permesso negato che offre un servizio di rimozione rapida dei contenuti nel caso in cui si trovino in piattaforme più grandi. Non ci sono protocolli automatici, però per quel poco che funziona la legge vale la pena cercare di ottenere giustizia.

L'articolo “Denunciammo Phica.net già nel 2019, ma nessuno fece niente. La legge sul Revenge porn non basta, bisogna fermare la violenza digitale” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti