Dieci anni di Brexit: miliardi bruciati, ma Farage è ancora protagonista

  • Postato il 20 novembre 2025
  • Di Il Foglio
  • 3 Visualizzazioni
Dieci anni di Brexit: miliardi bruciati, ma Farage è ancora protagonista

La Brexit ha reso il Regno Unito meno ricco, con meno investimenti e meno produttivo di quanto sarebbe stato restando nell’Ue. E’ la fotografia di un paper del National Bureau of Economic Research (Nber) che misura gli effetti sull’economia britannica dieci anni dopo il referendum del 2016. Le stime nascono dall’incrocio tra modelli macroeconomici e dati micro sulle imprese britanniche.

Gli economisti (tra questi N. Bloom di Stanford, P. Bunn della Bank of England, Paul Mizen del King’s College) stimano che al 2025 il pil del Regno Unito sia inferiore del 6-8 per cento rispetto allo scenario in cui Londra fosse rimasta nel mercato unico. Il deterioramento è iniziato subito dopo il referendum, ben prima dell’uscita formale del 2020, ossia da quando imprese e mercati hanno dovuto fare i conti con un futuro fuori dall’Ue. Rispetto allo scenario attuale, l’uscita dall’Unione ha provocato una caduta degli investimenti del 12-18 per cento e dell’occupazione del 3-4 per cento. La Brexit, nelle stime del Nber, ha agito da zavorra strutturale: meno capitale in macchinari, ricerca, infrastrutture, e una diminuzione della produttività del 3-4 per cento che frena il potenziale di crescita futuro. Il punto della ricerca è che questi non sono gli effetti di una recessione temporanea, ma il risultato di un contraccolpo che si accumula nel tempo: incertezza elevata e prolungata sulle regole future che congela investimenti e assunzioni, e costi burocratici su dogane, scorte e nuove procedure. Ogni anno si perde un pezzo di crescita potenziale, ogni anno il divario con lo scenario “no Brexit” si allarga.

Il paper mette in luce due paradossi. Il primo è che le previsioni accusate di catastrofismo erano troppo ottimiste. Lo studio confronta i risultati con le stime fatte all’epoca del referendum (Tesoro britannico, Fmi etc.) che anticipavano una perdita di pil intorno ai 4 punti percentuali nei primi 5 anni, ma che allora furono bollate come “project fear”. Per gli autori, quelle previsioni colgono nel segno fino al 2020-21, ma sottostimano i danni sul lungo periodo. Il processo di uscita, così lungo e caotico, ha continuato a pesare sulla fiducia e sulle decisioni delle imprese, spingendo il costo complessivo oltre la fascia alta degli scenari del 2016.

Il secondo paradosso è politico. I sondaggi mostrano che solo un elettore su dieci considera la Brexit un successo, mentre una maggioranza la descrive come un fallimento e molti indicano tra i responsabili anche Nigel Farage. La Brexit è quasi scomparsa dal dibattito quotidiano, e la conversazione pubblica si è spostata altrove, soprattutto sull’immigrazione. Eppure proprio Farage oggi guida Reform Uk, un partito nazionalista anti immigrazione che risulta in testa in diversi sondaggi nazionali. Farage e i fautori della Brexit non stanno pagando un prezzo politico proporzionato ai danni economici provocati, e il governo laburista di Keir Starmer si trova a rincorrerlo su posizioni dure anti immigrati. Proprio lunedì la ministra dell’Interno Shabana Mahmood ha varato una stretta sull’immigrazione, da alcuni definita “alla Trump”: inasprimento dei criteri d’asilo, rimpatri accelerati, status di rifugiato più temporaneo e tempi più lunghi per la residenza permanente.

Prima dei migranti, della retorica sulla “ripresa del controllo” su regolamentazioni e confini, c’è una scelta che ha reso il Regno Unito strutturalmente meno ricco di quanto sarebbe stato dentro il mercato unico. Forse uno dei più grandi what if per i britannici.

 

 

 

Continua a leggere...

Autore
Il Foglio

Potrebbero anche piacerti