“Dopo Siviglia e Cambridge torno in Italia per fare ricerca. Spero di avere fatto la scelta giusta”

“Mi sono chiesta spesso se avessi fatto la scelta giusta per la mia carriera. Alla fine, quello che desidero è poter fare ricerca che sia significativa e che abbia un impatto reale per le persone”. Dopo dieci anni all’estero tra Siviglia e Cambridge, Benedetta Mannini, 44 anni, originaria di Prato, ha deciso di tornare in Italia, come ricercatrice dell’Università di Firenze, con l’obiettivo di studiare le applicazioni pratiche per combattere malattie neurodegenerative come l’Alzheimer.

In un periodo in cui molte aziende farmaceutiche hanno interrotto i loro programmi di ricerca sull’Alzheimer, scoraggiate dalla difficoltà di ottenere risultati concreti nonostante anni di investimenti e penalizzando fortemente il progresso nella lotta contro questa malattia, Mannini ha ottenuto un finanziamento da 150mila euro dall’Associazione Italiana Ricerca Alzheimer: il suo progetto concentrato su prevenzione e fasi precoci della malattia segue un approccio traslazionale per migliorare l’integrazione tra la ricerca di base e gli studi clinici o comportamentali.

La scelta di trasferirsi all’estero per Benedetta è arrivata durante l’ultimo anno di dottorato: “Sentivo il bisogno di confrontarmi con una realtà diversa – ricorda – e di ampliare le mie competenze, sia scientifiche che tecniche”. Dopo la laurea (con lode) in scienze biologiche e il dottorato di ricerca in biochimica e biologia applicata all’Università di Firenze, nel 2013 arriva la decisione di proseguire il proprio percorso in Spagna per un postdoc presso il Cabimer (Andalusian Centre for Molecular Biology & Regenerative Medicine) di Siviglia. Nel 2014, dalla Spagna Benedetta si trasferisce in Inghilterra, all’Università di Cambridge.

È nel Regno Unito che lavora nel ruolo di Principal Scientist, responsabile della biologia cellulare, guidando un gruppo di sette scienziati presso WaveBreak Therapeutics, uno spin-off dell’Università di Cambridge, con l’obiettivo di sviluppare modelli cellulari per lo studio di malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson. “Un’esperienza per me trasformativa – spiega al fatto.it – che mi ha permesso di vedere da vicino come la ricerca di base nata in accademia potesse tradursi in un’applicazione concreta con potenziale impatto sulla vita dei pazienti”.

Le scelte di andare prima in Spagna e poi nel Regno Unito sono state guidate da una combinazione di fattori: il desiderio di crescere e di lavorare in ambienti stimolanti, ma anche la prospettiva di anni di precariato nella ricerca in Italia. “Quando sono partita, non immaginavo che sarei rimasta all’estero per dieci anni. Volevo continuare a fare ricerca, ma desideravo anche essere indipendente economicamente”.

Nel Regno Unito la principale differenza rispetto all’Italia è la maggiore disponibilità di opportunità, accompagnata da una burocrazia molto più snella. All’Università di Cambridge i contratti per i postdoc sono “comunque precari, come accade nell’accademia italiana e altrove”, ci tiene a precisare Mannini. Tuttavia, “dalla mia esperienza, se si dimostra di essere meritevoli, le possibilità di rinnovo sono più concrete e i percorsi di crescita più chiari”. Inoltre, l’industria non è vista come una scelta di “serie B” rispetto all’accademia: “Molti studenti di dottorato – aggiunge – aspirano fin da subito a proseguire la loro carriera nel settore industriale”. Ciò è anche favorito dal fatto che l’Università di Cambridge genera un indotto occupazionale “solido”, che offre reali possibilità di inserimento professionale.

Il salto dall’accademia al settore industriale ha comportato un’impostazione del lavoro “molto più coordinata: tutto è più semplice da realizzare, i flussi di lavoro sono ben strutturati e si opera in team altamente coordinati”. A tutto ciò va aggiunto un aspetto importante: generalmente gli stipendi accademici sono più alti rispetto all’Italia, e quelli nell’industria sono decisamente più competitivi. “È evidente che dove ci sono più fondi, strumenti migliori e una struttura più efficiente, si riesce a dedicare più tempo ed energie alla ricerca vera e propria”.

Nel 2023 Benedetta decide di rientrare in Italia, a Firenze, richiamata dall’idea di creare un proprio gruppo di ricerca e continuando a lavorare nel campo delle neuroscienze, da sempre la sua passione. No, non è stato facile lasciare la sua azienda, spiega, perché lì era felice e stimolata dalle opportunità che l’ambiente le offriva, lavorando a stretto contatto con top manager e imparando come si sviluppa e presenta un farmaco ai regolatori. Inoltre, significava lasciare il proprio team costruito con impegno e dedizione.

Il nuovo obiettivo è quello di costruire ponti tra accademia e industria e facilitare soluzioni concrete a beneficio dei pazienti, con l’ambizione di contribuire, un giorno, ad arrivare a una cura. Il futuro, per Benedetta, è in Italia, ma occorrono interventi concreti, avverte, per rendere il nostro Paese più attrattivo e competitivo: maggiori investimenti, stipendi adeguati, infrastrutture competitive, una burocrazia più snella e un dialogo più stretto tra accademia e industria. La situazione che stanno vivendo gli Stati Uniti, ad esempio, storicamente un motore di innovazione mondiale, con i tagli e i congelamenti delle risorse annunciati dall’amministrazione Trump “rischia di avere un impatto che va ben oltre i confini nazionali, rallentando progressi scientifici da cui tutto il mondo può beneficiare”. Per lavorare nella ricerca – spiega Benedetta – è fondamentale confrontarsi con laboratori diversi. “L’estero rappresenta un’opportunità di crescita importante – conclude – ma non può essere l’unica strada che garantisce una vita dignitosa al ricercatore”.

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Il Fatto Quotidiano