E Cioran brindò alla fine dell’umanità
- Postato il 19 giugno 2025
- Di Panorama
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Dopo averla corteggiata per tutta la vita, il 20 giugno di trent’anni fa Emil M.Cioran si unì alla morte. Aveva annunciato il suicidio tante volte, poi avrebbe confessato che quell’annuncio era l’unico modo per sopravvivere. L’idea del suicidio, per lui, salva la vita; è l’arte di uccidersi col pensiero. E aveva prospettato la fine dell’umanità come una gioiosa apocalissi. Cioran fu scrittore e nullafacente, e sintetizzò le due attività scrivendo da nullapensante, ovvero da pensatore del nulla. Allievo di Leopardi, di Pascal e di Baudelaire ma anche, soprattutto nello stile, di Nietzsche, con cui condivise l’annuncio della morte di Dio ma anche l’assurda sorte di avere un padre prete, pastore luterano il filosofo tedesco, pope ortodosso lui. Nella sua soffitta parigina Cioran aveva affisso al muro i versi dell’Infinito di Leopardi. Cioran fu leopardiano iperbolico, ma poi tradiva il suo amore per la vita, per le donne, il gusto di vivere, la sua insocievole socievolezza.
Quando stai giù e vedi tutto nero, Cioran è una cura omeopatica o una terapia d’urto. E rispetto a lui ti accorgi che non vedi poi tutto nero. Ma leggendolo vedi quali splendidi fiori può generare l’umor nero, innaffiati dalle lacrime più amare. Cioran ti porta verso il nulla, ma sono così scintillanti le cime della sua disperazione, così briosa la sua vena apocalittica, così eccessiva, da provocare una specie d’euforia degli abissi. Vedi lo spettacolo dell’intelligenza in rotta col mondo e la vertiginosa ebbrezza del cupio dissolvi; l’allegria del naufrago. Una spremuta di pessimismo cosmico e viene fuori un succo grottesco di tetro entusiasmo. Tutto appare vano, suicidio incluso; di fronte al male pensi con lui al peggio e quasi ti ristori, la tua disperazione privata annega in quella cosmica e si stempera nel fatalismo universale. Persino il sole si fa nero nelle pagine di Cioran, come fu da noi con Manlio Sgalambro. Ma avviene il miracolo: ritrovi il piacere dell’intelligenza, il gusto della lettura, la voluttà dell’imprecazione. La grazia e l’estasi del nulla.
In un magnifico francese Cioran, esule romeno, espresse l’ebbrezza dell’abisso ma nella vita fu tutt’altro che cupo e misantropo. Pronosticò prima di Michel Houellebecq e Renaud Camus l’invasione dell’islam in Francia e in Europa; previde che Notre-Dame sarebbe diventata una moschea.
Poi la sua biografia mistico-macabra: l’amicizia da bambino col becchino e l’assidua frequentazione di scheletri e cadaveri, il rimpianto della madre di non aver abortito anziché far nascere un disperato come lui, la fuga in bagno da bambino quando il padre-pope recitava a tavola le preghiere, la bici per combattere l’insonnia pedalando fino allo sfinimento, la civetteria di imbucarsi da clochard nelle cene e perfino in una cerimonia all’Académie française, tra gloriosi, vecchi tromboni malridotti; poi la bugia confessata di aver frequentato la Sorbona, e l’assidua presenza ai tavoli del Café de Flore, locale preferito perché riscaldato, dove scriveva avendo come dirimpettaio Jean-Paul Sartre, nichilista ben più deprimente di lui con l’aggravante di voler cambiare il mondo, dopo averlo avvilito. Cioran era nichilista ma amava la bellezza.
Cioran visse a Parigi nel quartiere latino, coltivando una briosa estetica del fallimento, in cui rese smagliante il nichilismo, nella prosa e nello stile di vita. Visse da déraciné, da clochard, da bohémien e da flâneur; si sentiva orientale in Occidente ma occidentale rispetto all’Oriente, collocandosi nella terra di mezzo, tra il nirvana e la caffeina. Viveva insonne sul crinale, come la sua Romania. Da cui Cioran fuggì, anche se a Parigi non disdegnò le rimpatriate con gli altri esuli romeni, come Eugène Ionesco e Vintila Horia. Cioran sbarcò in Italia con le edizioni del Borghese, poi diventò autore Adelphi. Cioran definì l’Italia «mirabile Paese, il meno logorato, il meno perduto d’Occidente», lo colpì Lecce, «una meraviglia». Suoi fratelli separati furono due scrittori italiani, Guido Ceronetti e Mario Andrea Rigoni che lo ricordò «straordinariamente vivo, caloroso, amabile, arguto, malinconico e divertente».
Intenso fu il suo rapporto col connazionale Mircea Eliade, studioso del sacro e grande storico delle religioni. Lo comprova l’epistolario di mezzo secolo, Una segreta complicità (Adelphi). Nella loro segreta complicità c’è anche un comune peccato di gioventù. Indicibile. Avevano creduto nella rivoluzione nazionale della Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu. Cioran in Francia simpatizzò col nazional-populismo di Doriot e collaborò col governo di Vichy. Ma prima di Parigi, visse in Germania tra il 1933 e il 1934, mentre Hitler conquistava il potere.
Nelle lettere all’amico, Cioran racconta il suo bisogno d’incontrare persone volgari e provare un genere di dongiovannismo nato dalla disperazione, dalla nausea e dalla passione. Eliade lo aiuta con ripetuti invii di denaro sapendo che se la passava male. E Cioran, il cinico, spesso distribuiva le somme inviategli da Eliade tra i profughi romeni più bisognosi. Anzi, lui – solitario, povero e maledetto – si sobbarca di mantenere tre nipoti rimasti a suo carico, in seguito alla morte della loro madre, sua sorella. «Proprio io», nota Cioran, «che ho orrore morboso per il matrimonio e ho fatto di tutto per non avere una famiglia…». Ma sono queste contraddizioni a salvare Cioran e a trasformare il suo odio per il mondo in una posa amabile e una prosa deliziosa. Leggetelo, la sua vena catastrofica vi farà riscoprire il gusto di vivere e di pensare.