Etichette alimentari: perché l’Italia combatte in Europa per difendere il Made in Italy
- Postato il 3 maggio 2025
- Di Panorama
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È questione di etichette. Non c’entra, purtroppo, il Galateo anche se in generale, e a Bruxelles in particolare, rispettarlo ci farebbe vivere in un mondo più educato e una migliore capacità di intendersi. Che invece il «burosauro» europeo tende a ingabbiare in una quantità asfissiante di norme. L’Italia da tempo si batte per avere un riconoscimento d’origine sui prodotti agroalimentari, consapevole che in sede Ue ha da sostenere tre sfide esiziali: la prima è sul fronte interno all’Unione per evitare che le potentissime multinazionali della nutrizione usino i regolamenti per sfrattare i nostri prodotti dalle tavole e farci arrivare i cibi ultra-processati. A riguardo, un campo di battaglia è il Nutri-score, la famosa etichetta a semaforo, tutt’altro che scongiurata. La seconda sfida si gioca sui mercati internazionali, perché la protezione Ue fuori dai suoi confini è debolissima e in tempi di dazi crescenti la contraffazione non chiede di meglio che non avere barriere di riconoscibilità. La terza, che è anche la più pericolosa, è la tentazione che la presidente Ursula von der Leyen e la sua Commissione hanno più volte messo in atto: usare l’agroalimentare come merce di scambio per accordi doganali favorevoli. In ballo ci sono quasi 70 miliardi di euro di esportazioni che l’Italia fattura grazie ai suoi «gioielli in dispensa». E il 2025 è partito a razzo.
L’«effetto Donald Trump», infatti, ha gonfiato nei primi tre mesi la domanda degli Stati Uniti. Abbiamo fatto, nello scorso trimestre dicembre-febbraio, un +4 per cento a livello mondiale, ma soprattutto è esploso l’acquisto di vino in America. A livello globale questo prodotto italiano contabilizza un +7,5 per cento in valore (a 578,6 milioni di euro) e un più 1,9 in quantità (153,5 milioni di litri) con gli spumanti arrivati a 150,4 milioni di euro, per un incremento del 5,7 per cento grazie a 35,1 milioni di litri venduti (+6,1 per cento). Negli Usa la domanda, in questi tre mesi, è cresciuta del 19 per cento! Ma da Oltreoceano ora arriva un segnale preoccupante. È andato in commercio il CalSecco – spumante prodotto nella Napa Valley, California dal colosso Rack&Riddle – che si «pregia» di scrivere sull’etichetta «coltivato e prodotto in California secondo la tradizione veneziana».
È evidente la sfida che lanciano i produttori americani, considerando che il mercato dei cosiddetti sparkling (oltre il 39 per cento del consumo) negli Stati Uniti si concentra tra 13 e 18 dollari: vogliono approfittare dei dazi, semmai entreranno in vigore, per mettere fuori mercato il Prosecco. Dato che il vino vale per il nostro export 8,1 miliardi di euro (è la singola voce più importante nell’agroalimentare) e che gli Usa ce ne comprano quasi per due miliardi, la questione di etichetta è partita proprio dalle bottiglie. Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida ha annunciato che, a partire dalle bottiglie Docg, sarà apposta una piccola bandiera tricolore come monogramma.
È vero che ci sono già le fascette ministeriali, ma l’informazione non è immediata. Sostiene il responsabile del dicastero agricolo: «Questo è solo un nostro intervento per identificare meglio la produzione italiana, ma la sfida vera dobbiamo vincerla in Europa. Abbiamo fatto passi avanti con il QR code che dovrebbe riunire in etichetta tutte le informazioni nutrizionali, ma ora dobbiamo bloccare le etichette allarmistiche. Vero che con il recente “pacchetto vino” del commissario Christophe Hansen, approvato in marzo, si sono fatti passi in avanti. Al vino è stata portata un’aggressione da chi ha interesse a sviluppare altre economie. E ci opporremo».
Una faccenda quella delle etichette allarmistiche che già distorce, in barba ai regolamenti comunitari, la concorrenza visto che Ursula von der Leyen ha consentito all’Irlanda di scrivere che il vino nuoce gravemente alla salute. Cosa di cui non è affatto persuaso il nuovo commissario al settore, l’ungherese Olivér Várhelyi, che vuole riaprire il dossier del documento Be.Ca (quello anticancro) ispirato dalle linee guida dell’Oms, con cui la presidente della Commissione Ue ha una particolare sintonia.
Resta però il problema della tutela debole – come il citato CalSecco – sui mercati terzi. Da qui la reiterazione della richiesta dell’etichetta di origine. Sostiene il presidente di Coldiretti Ettore Prandini che ha chiesto agli italiani se gradiscano le etichette allarmistiche sul vino: «I “no” sono all’80 per cento e senza questa indicazione le nostre produzioni sono soggette a una spietata concorrenza estera. E poi bisogna riformare il codice doganale: non è possibile che si possa definire europeo un prodotto che subisce anche solo il confezionamento nel territorio dell’Unione. Vogliamo controlli più stringenti e l’abolizione di questa norma capestro. Insieme alla reciprocità». «Vedo» aggiunge Prandini, «che si cerca di superare lo shock da dazi rilanciando accordi come il Ceta e il Mercosur (rispettivamente con Canada e Sudamerica, ndr), che si pensa ad accordi sull’India come già fatto con l’Africa del Nord, che facilitano la penetrazione di prodotti agricoli. Gli standard di produzione e di qualità di questi prodotti non possono essere diversi dai nostri».
In Italia il governo si è attrezzato varando un disegno di legge che inasprisce le pene per i contraffattori. Il ministro Lollobrigida inserisce nel codice penale i reati di agro-pirateria, di falsificazione dei marchi Dop e Igp e d’inganno al consumatore se si cerca di vendere come italiano un prodotto che italiano non è. E questo non vale solo sui mercati esteri; anche in Italia ci sono truffe sull’origine. Nel testo ci sono obbligo di tracciabilità degli ingredienti per i prodotti lavorati e ci si è occupati per la prima volta anche della pesca.
La pressione cinese sulle frontiere agroalimentari è molto forte. Basti dire che importiamo da Pechino 40 chilogrammi di pesce a persona – spesso è pesce «triangolato» e fatto arrivare da altri Paesi – quasi cento milioni di chili di concentrato di pomodoro e il 15 per cento dei legumi. Perché importiamo, globalmente, per quasi 64 miliardi di euro. E abbiamo anche il problema del cosiddetto l’italian sounding – tra prodotti falsi e imitati vale 120 miliardi- che annacqua i successi esteri sui nostri tre principali mercati di sbocco: la Germania con 10,6 miliardi, Stati Uniti con 7,8 miliardi e la Francia con 7,5 miliardi. Al tempo stesso, i nostri primi fornitori sono Germania, Francia, Spagna. La questione di etichetta serve dunque a dire chi siamo, che cosa vendiamo e a evitare che altri lo facciano al posto nostro. Anche se a Bruxelles tutto questo interessa relativamente