Festival del Cinema di Venezia, l’onda sudcoreana investe la laguna con «No Other Choice»

  • Postato il 31 agosto 2025
  • Di Panorama
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Saranno stati i sei minuti di standing ovation e applausi a scena aperta. O forse il fatto che qualcuno l’ha già definito il nuovo Parasite. Qualunque sia la scintilla, una cosa è certa: l’onda sudcoreana non solo non si ferma, ma è sempre più alta. E adesso ha investito anche il Festival di Venezia. Park Chan-wook, il regista che ha trasformato la vendetta in un’arte visiva e la crudeltà in poesia cinematografica, arriva al Lido con No Other Choice e per alcuni il Leone d’Oro sembra già avere trovato un destinatario naturale.

Vent’anni dopo Lady Vendetta, Park torna al festival con quello che molti definiscono il suo progetto della vita. Una storia che insegue da più di dieci anni, ispirata al romanzo The Ax di Donald Westlake, già portato sullo schermo da Costa-Gavras ma qui reinventato in chiave coreana. Non un semplice remake, ma una riscrittura radicale: un mix letale di commedia neracritica sociale e tensione grottesca, che racconta la ferocia della competizione lavorativa con la stessa eleganza con cui in passato ci ha mostrato lame affilate e amori impossibili.

Lee Byung-hun e Son Ye-jin: due icone della Hallyu al Lido

Festival del Cinema di Venezia, l’onda sudcoreana investe la laguna con «No Other Choice»
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Festival del Cinema di Venezia, l’onda sudcoreana investe la laguna con «No Other Choice»
Festival del Cinema di Venezia, l’onda sudcoreana investe la laguna con «No Other Choice»

Il protagonista, You Man-su, ha il volto e la presenza scenica di Lee Byung-hun. Un attore che, per chi vive di Hallyu, è un monumento: dal Front Man mascherato e spietato di Squid Game a ruoli iconici nel cinema d’azione (A Bittersweet LifeI Saw the Devil), fino alla commedia e ai blockbuster internazionali (G.I. JoeRed 2). Qui, Byung-hun si muove come un uomo intrappolato in una spirale discendente: crede di avere tutto — casa perfetta, famiglia modello, due cani labrador che scorazzano in giardino, SUV in garage — fino a quando un’anguilla regalata dai nuovi proprietari americani dell’azienda non diventa il preludio al licenziamento.

L’anguilla, simbolo di virilità nella cultura coreana, diventa subito un gesto beffardo: “aumenta la potenza”, gli dicono, ma in realtà sancisce la fine di tutto. L’azienda lo scarica senza pietà, lui si ritrova disoccupato dopo 25 anni di carriera nella produzione di carta, un settore che — ironia della sorte — sta letteralmente scomparendo. Da lì inizia la caduta: colloqui umilianti, curriculum ignorati, privilegi che sfumano, il lento disfacimento di quell’identità costruita intorno al lavoro.

E qui Park affonda il coltello. No Other Choice non è solo la storia di un uomo che perde il lavoro: è il ritratto di una società in cui la dignità personale e lo status economico sono così intrecciati da diventare indissolubili. Man-su non sa immaginarsi in un altro ruolo. Non prende nemmeno in considerazione l’idea di cambiare settore. L’unica via, nella sua mente distorta, è “rimanere il migliore” a qualunque costo. Anche a costo di uccidere i rivali.

È qui che il film si tinge del nero più cupo e del grottesco più puro: Man-su pubblica un annuncio di lavoro finto, raccoglie i dati dei candidati, li studia e li elimina fisicamente uno dopo l’altro. Park trasforma ogni omicidio in un balletto visivo: c’è un’ironia di fondo, ma anche un’eleganza millimetrica che solo lui sa orchestrare. Una sequenza in particolare — che alterna violenza coreografata, musica di Cho Young-wuk e dettagli apparentemente banali che deviano l’azione — è già tra i momenti cinematografici dell’anno.

Accanto a Lee Byung-hun, il cast è una vetrina di talento coreano. La moglie di Man-su, Miri, ha il volto di Son Ye-jin, star di Crash Landing on You e icona del melodramma coreano (The ClassicA Moment to Remember). Il suo personaggio è il contrappeso emotivo del film: una donna che osserva il crollo del marito e cerca di mantenere la rotta familiare, finché la realtà non la costringe a fare le proprie scelte. Park le regala momenti di forte intensità, in cui il non detto pesa più di qualsiasi dialogo.

Un Park Chan-wook in stato di grazia

Park Chan-wook non è solo un regista: è un architetto del fotogramma. In No Other Choice ogni inquadratura nasconde un sottotesto, un oggetto fuori posto, un dettaglio che diventa simbolo. La casa di design che ospita la famiglia è un rifugio e una prigione, con spazi sotterranei che riecheggiano Parasite. Le videochiamate sono sempre disturbate da elementi di sfondo che il protagonista non vede ma lo spettatore sì. Gli animali domestici diventano termometro della crisi: quando i cani devono essere dati via per risparmiare, il declino è ormai irreversibile.

Il tono oscilla continuamente: dalla commedia fisica — con gag costruite su rumori improvvisi, dialoghi sovrastati da musica altissima, cadute slapstick — alla tragedia greca del lavoro che scompare. Ed è proprio questo equilibrio impossibile a rendere il film così potente: ridere e sentire il gelo sulla pelle nello stesso momento.

La scelta di Park di inserire dettagli ironici — dal figlio che, di fronte alla decisione della madre di disdire Netflix, risponde “allora guardo qualcosa prima” mentre parte il Tudum, al vaso d’acqua che cade addosso all’assassino prima del colpo finale — serve a ricordare che il capitalismo non ci umilia soltanto, ma ci addestra persino a ridere della nostra stessa rovina.

Culturalmente, No Other Choice è una dichiarazione. È l’ennesima prova che la Corea del Sud non è un fuoco di paglia mediatico, non è solo Squid Game o K-pop. È un motore culturale che produce narrazioni universali, in grado di vincere Oscar (Parasite), di dominare i festival, di influenzare la moda, la musica, l’arte visiva. Chi ancora la considera un fenomeno di nicchia, un vezzo da intenditori, non ha capito che siamo davanti a una rivoluzione culturale vera e propria.

E a Venezia questo è evidente: Park Chan-wook non si limita a portare un film, porta una visione del mondo. Una visione che mescola l’estetica millimetrica di Decision to Leave, la crudeltà elegante di Oldboy e Lady Vendetta, e la capacità di parlare a un pubblico globale con un linguaggio cinematografico immediatamente riconoscibile. Il regista non gira per compiacere le mode, ma per imporre un’estetica e un’etica narrativa che ormai sono un marchio della penisola coreana nel mondo.

Non stupisce che, già alla prima proiezione, più di un critico abbia sussurrato la parola “Oscar” come se fosse un dato di fatto. Non stupisce nemmeno che, dopo i titoli di coda, il pubblico si sia alzato in piedi come un’onda — ancora lei, l’onda coreana — che dalla penisola coreana arriva fino alla laguna veneziana. Un’onda che non si limita a bagnare la Mostra, ma la travolge. E chi è abbastanza attento sa che non è un’onda passeggera: è una marea destinata a restare.

Autore
Panorama

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