Fontana, Horn, Kosuth. 3 mostre da non perdere a Napoli nell’estate 2025 

  • Postato il 13 giugno 2025
  • Arti Visive
  • Di Artribune
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Nell’estate 2025, Napoli conferma la sua vocazione al contemporaneo. Oltre alle sculture pubbliche come quella di Jaume Plensa in Piazza Municipio (di cui abbiamo scritto qui), le gallerie e le fondazioni della città portano avanti una programmazione che indaga il Novecento come secolo d’arte polimorfa: abbiamo selezionato tre luoghi (Casa Morra, Studio Trisorio e Galleria Lia Rumma) che in questi mesi ospitano mostre di grandi nomi dell’arte contemporanea italiana e internazionale. 

Giovanni Fontana e la poesia epigenetica a Casa Morra 

Nel cuore di Napoli, la Fondazione Morra, in collaborazione con la Fondazione Bonotto, ha inaugurato il percorso espositivo Giovanni Fontana: prospettive epigenetiche, evento centrale delle celebrazioni per il quarto anno del progetto Millenanni. Una mostra che non è soltanto esposizione, ma dispositivo esperienziale e spazio di riflessione viva sulla poesia, il corpo e la voce. Ad accogliere il progetto è l’affascinante cornice di Palazzo Cassano Ayerbo D’Aragona, sede della Fondazione Morra, dove le sale storiche diventano parte attiva della narrazione artistica. L’allestimento intreccia le opere verbo-visive e sonore di Giovanni Fontana con quelle provenienti dalle edizioni precedenti di Millenanni, dando vita a un dialogo temporale tra passato e presente. Tale confronto permette al visitatore di percepire l’arte come un organismo in trasformazione, dove ciò che è accaduto continua a risuonare nel presente, proprio come la stessa architettura dell’edificio, che custodisce tracce di memoria e apertura al futuro. Attorno alla figura di Giovanni Fontana (Frosinone, 1946) — poeta, performer e teorico tra i più influenti nel panorama verbo-visivo e sonoro internazionale — ha preso forma un’intensa tre giorni, dal 6 all’8 maggio, che ha unito conferenze, dialoghi, videoproiezioni e performance. Fontana è una delle figure cardine della sperimentazione artistica italiana, la sua opera sfugge a ogni classificazione, dissolvendone i confini tra parola scritta, voce, immagine e gesto. A partire dalle neoavanguardie, l’artista ha costruito un percorso originale e radicale, dove la poesia ha assunto le forme di evento sonoro, oltre che di composizione visiva e azione scenica.

Prospettive epigenetiche, opera verbo-visiva e sonora di Giovanni Fontana Patrizio Peterlini dialoga con Lello Voce-Ph Serena Schettino; Cortesy Fondazione Morra
Prospettive epigenetiche, opera verbo-visiva e sonora di Giovanni Fontana Patrizio Peterlini dialoga con Lello Voce-Ph Serena Schettino; Cortesy Fondazione Morra

Il concetto di “poesia epigenetica”, da lui coniato, racchiude questa tensione verso un linguaggio in continua mutazione, dove il significato si evolve, espandendosi e disgregandosi. La parola, nei suoi lavori, è organismo instabile, attraversato da flussi di energia e di senso. La rassegna Millenanni Quarto Anno, inoltre, accompagna il progetto espositivo con un ciclo cinematografico curato dallo storico del cinema Mario Franco. Intitolata Il Cinema delle Avanguardie, la rassegna esplora le contaminazioni tra il linguaggio filmico e le ricerche delle Avanguardie Storiche e contemporanee, da Duchamp a Richter, da Bunuel alla Body Art, passando per Fluxus, la Pop Art e il cinema Underground americano degli Anni Sessanta. Fondazione Morra ha voluto proporre non solo un omaggio a uno dei maestri della poesia sonora e visiva, ma creare una piattaforma viva di confronto e ricerca. Lo spettatore viene invitato a rimettere in discussione le categorie dell’arte e a interrogare i codici della comunicazione contemporanea, attraverso il corpo vibrante della parola. 

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Rebecca Horn allo Studio Trisorio 

Con Bodylandscape, personale di Rebecca Horn (Michelstadt, 1944 – Bad König, 2024) presso lo Studio Trisorio di Napoli, si rinnova un rapporto espositivo e curatoriale tra la galleria partenopea e una delle voci più radicali dell’arte contemporanea. Lo Studio Trisorio, tra i principali rappresentanti italiani dell’artista tedesca, prosegue con questa mostra una lunga e coerente esplorazione della sua opera, offrendo al pubblico un’occasione preziosa per immergersi in quella dimensione poetica e perturbante che da decenni abita la ricerca di Horn. Al centro dell’esposizione vi sono disegni su carta, in particolare i Bodylandscape, le cui dimensioni corrispondono alla massima estensione fisica dell’artista. Non si tratta di semplici immagini, ma di azioni: gesti performativi trasposti su superficie, in cui l’energia cinetica e l’impulso emotivo si condensano in segni. La carta diviene membrana viva, luogo d’incontro tra mondo interiore ed esteriore, tra movimento corporeo e visione cosmica. Del resto, la riflessione sul corpo – sul suo limite, sul suo travalicamento – attraversa tutta l’opera di Rebecca Horn. Fin dagli Anni Settanta, attraverso performance e sculture indossabili, l’artista ha interrogato la soglia tra sé e l’altro, tra interno ed esterno, costruendo estensioni fisiche del corpo capaci di destabilizzarne la percezione. L’artista ha infatti messo costantemente in crisi l’unità del corpo per trasformarlo in strumento di contatto e attrito con il mondo.

L’allestimento si articola in due sale che amplificano i diversi registri espressivi dei lavori su carta. La prima sala accoglie opere dal tratto impetuoso e dinamico, in cui il segno appare spinto fino al limite del controllo, come risucchiato in un vortice espressivo che congiunge violenza e vitalità. Qui pare di trovarsi al centro di una collisione tra forze opposte: lo slancio del gesto e la resistenza della materia, il moto del pensiero e la sua immediata traduzione visiva. La seconda sala si fa invece più raccolta e rarefatta. Tre opere con un andamento dal richiamo circolare impongono una sospensione, un rallentamento. La circolarità dei segni non è solo compositiva, ma concettuale: avvolge lo sguardo, lo guida in un movimento ipnotico, quasi rituale. I colori – calibrati, intenzionali, a tratti eterei – si depositano sulle superfici candide dello spazio con leggerezza e precisione, come se tracciassero un varco verso una dimensione intima e meditativa. La mostra, allora, diviene dispositivo di risonanza: un luogo in cui il gesto artistico si fa spazio psichico, una soglia sensibile che continua a interrogare lo statuto del corpo, dell’identità e della presenza. In un tempo in cui il corpo è spesso ridotto a superficie da ottimizzare o a dato da elaborare, Horn ci invita a considerarlo come paesaggio vivente e mutevole, come strumento di conoscenza e di visione. Il fatto che tutto ciò avvenga a Napoli – città stratificata, corporea, in cui il paesaggio naturale e quello umano si rifrangono in infiniti livelli di senso – non è irrilevante. In questa tensione costante tra dentro e fuori, tra impulso e forma, l’opera di Horn trova un’eco naturale, una risonanza geopoetica che ne amplifica il portato. Visitare questa mostra significa accettare di attraversare un territorio instabile ma fertile, in cui l’arte non spiega, ma espone; non illustra, ma evoca. E ci ricorda, con rigore e grazia, che il corpo resta il nostro primo paesaggio. 

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Joseph Kosuth alla Galleria Lia Rumma 

“La vita poggia il suo fianco sul piano inclinato del Tempo”, così scriveva Bonito Oliva ne Luoghi del silenzio imparziale, raccontando come la vita “vera”, si dipani nello spazio / tempo del labirinto. Per uscire da tale dedalo, in un mondo in cui le circostanze che portano al raggiungimento di una aletheia, un disvelamento, prevedono una ricerca eroica dell’Idea da ricordare, dopo aver dimenticato, una “Art as Idea as Idea” kosuthiana diviene non strumento di contemplazione, ma di attivazione di un pensiero. È all’enunciazione linguistica che è affidato l’incarico di rivelare la riflessione che sottende l’opera di uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, Joseph Kosuth (Toledo, Ohio, 1945), che ritorna a Napoli presso la galleria Lia Rumma a rinvigorire la relazione con la gallerista, intrecciatasi già a partire dai suoi albori come artista. Con la mostra The Question, Kosuth investiga il tema del tempo e di come l’uomo si inserisce nelle sue coordinate. Nella linearità dettata da Kronos si fa spazio il momento giusto, il kairos, che all’accezione temporale accosta l’importanza dell’azione, divenendo un “tempo qualitativo”. A sovrintendere queste dimensioni temporali, l’eterno assoluto, Aion, come forma imperitura dell’essere, fino a raggiungere il suo opposto, l’assenza e la negazione stessa di Tempo. Il titolo dell’esposizione rimanda a una neonata opera omonima dove un orologio a parete si fa tela, per una citazione di Gertrude Stein del 1928. “Suppose no one asked a question, what would be the answer” (Se nessuno facesse una domanda, quale sarebbe la risposta), è sia uno strumento per congelare il tempo legato all’epoca della scrittrice americana, sia una riflessione sulla produzione di pensiero a partire dalla sottrazione dell’input. L’orologio analogico si fa co-protagonista di altri due lavori esposti in cui ancora si affida alla parola il senso delle sfaccettature del tempo: appartenenti alla serie Existential time del 2019, Kosuth prende in prestito le citazioni di James Joyce e di George Eliot, che afferma “Every limit is a beginning as well as an ending”, stimolando la ricerca del presente nel punto di congiunzione tra inizio e fine. E usando il neon perché “simile alla scrittura, non è permanente. Mi piaceva l’idea di utilizzare un materiale usato per la segnaletica, che in un certo senso lo altera per l’arte. Al tempo stesso volevo preservare una sottile relazione con l’idea di pubblicità della cultura di massa”.

È la potenza del momento puntuale che vivifica l’esperienza temporale: l’esplorazione del varco che si apre tra due continuum storici è l’anello di congiunzione tra due opposti, tra passato e futuro, tra fine e inizio. Quanto più ci si spinge alla ricerca acuta di un senso compiuto, più si costruisce l’ordine che incastra il perituro e il rinnovato in un puzzle esatto, come testimoniano Sartre e de Beauvoir in dialogo. Le insulae temporali si abbracciano in un uroboro, un’autofecondazione rigeneratrice che dà spazio all’atto vitale. La polifonia narrativa di Kosuth mette in scena anche una proto-investigazione: One and three rakes è un’opera del 1965 che testimonia, attraverso il linguaggio, il coagulo di significati di un oggetto d’arte. In mostra un rastrello, una riproduzione fotografica del rastrello e la definizione di un vocabolario del termine rastrello. La riflessione analitica sulla natura del linguaggio mette in relazione tre declinazioni dello stesso concetto. Sulla scia del desiderio intrapreso da Duchamp, di voler “abbandonare l’arte retinica per una poetica […] legata ad un’arte fatta di metafore, allusioni e idee”, Kosuth fa interferire nella sua arte significati e significanti affinché sia la visione ideale ad emergere sulla visione estetica. Kosuth su Artforum nel 1967 scrive “Quando un artista utilizza una forma concettuale d’arte, vuol dire che tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una faccenda meccanica”. Le sue opere diventano quindi proposizioni analitiche, concetto ereditato dalla logica kantiana: espressioni di un pensiero figlio di una disciplina (quasi) esatta. 

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Autore
Artribune

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