Francesco, la fede nel “fútbol”, la maglia numero 4 e il mito di Pontoni: il calcio come manuale d’istruzioni per la vita

  • Postato il 22 aprile 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Il responsabile è stato suo padre Mario. O almeno così racconta la leggenda. Si dice che quando l’ostetrica emerse dalla camera da letto della loro casa a Buenos Aires stringendo fra le braccia il neonato Jorge Mario Bergoglio, l’uomo disse: “Pensate che sia troppo presto per portarlo a vedere la sua prima partita del San Lorenzo?”. Allora tutti si fecero una risata. Perché ancora non avevano capito che quella battuta era in realtà un manifesto programmatico. La famiglia Bergoglio aveva infatti due rituali irrinunciabili. Il sabato sera era dedicato all’opera. La domenica alla santificazione delle feste. Così, dopo essere andati al tempio cristiano a seguire la Messa, andavano nel tempo laico a seguire il San Lorenzo. È una saldatura perfetta. Perché quello argentino non è “calcio”, ma “fútbol“, qualcosa che va molto oltre il concetto decoubertiniano dello sport. È una fede assoluta e assolutizzante. Ha a che fare con la mistica. E proprio per questo ha bisogno dei suoi riti e dei suoi rituali, delle sue celebrazioni, delle sue divinità, dei suoi miracoli, dei suoi misteri, dei suoi leader che diventano quasi sciamani.

Il piccolo Jorge Bergoglio lo capisce subito. Cresce nel mito di René Pontoni, centravanti totemico del calcio argentino degli anni Quaranta. In patria lo chiamavano “Huevo”, perché dopo la morte del padre si era dovuto arrangiare lavorando nel reparto uova di un mercato. Poi a 14 anni, dopo essere entrato nelle giovanili del Gimnasia y Esgrima di Santa Fe, si ritirò improvvisamente per lavorare in un’officina. E in poco più di un anno ingrassò di circa trenta chili. Quando tornò in forma diventò un’entità praticamente inarginabile per le difese della Primera División. Nel 1945 passò al San Lorenzo. Dove con Farro e Martino formò il “Terceto de Oro” che porterà il club a vincere il titolo nel 1946. Jorge osserva il trio allo stadio. In casa e in trasferta. Poi tenta di riprodurre quelle giocate con gli amici Ernesto Llach e Nestor Carbajo. Dopo la scuola correvano a Plaza Herminia Brumana e disegnavano un campetto sbilenco delimitato da giacche e cappotti. Ogni volta che arrivava su quel lastricato, Bergoglio si sbottonava la camicia dell’uniforme scolastica. Sotto aveva una maglia da calcio. Con il numero 4 in bella mostra sulla schiena. Era un gesto simbolico, del tutto simile a quello con cui tempo dopo Clark Kent si trasformerà in Superman. In campo Jorge non è un granché. Non ha il dribbling funambolico delle ali né tantomeno lo strapotere fisico del centravanti. Gioca davanti alla difesa. Provando a impostare la manovra. Provando a soffiare il pallone a chi era più dotato di lui. “Ero una pata dura” (una gamba dura), dirà più avanti.

Osvaldo Soriano, uno dei più profondi scrittori argentini, disse che «L’amore per il San Lorenzo è un peso che si trascina per la vita». Jorge Bergoglio lo aveva capito da un pezzo. Il suo tifo era diventato qualcosa di molto vicino a un’ossessione. Tanto che quando la maestra lo vedeva distratto durante le lezioni aveva preso a domandargli: “A cosa stai pensando? A qualche partita di calcio?”. Ma soprattutto per Bergoglio il tifo ha poco a che fare con il concetto di vittoria. È un periodo in cui sono ancora i club a “scegliere” i propri tifosi. Non viceversa. Jorge si trova a simpatizzare per una squadra con un legame speciale della Fede. Perché il San Lorenzo de Almagro è nato nel cortile di un oratorio. E il suo fondatore è stato un prete salesiano: Lorenzo Massa. Proprio per il vestito nero dei preti i giocatori del San Lorenzo erano chiamati i “corvi”.

Con l’ingresso in oratorio Bergoglio capisce che il calcio, in fondo, non è altro che un’allegoria della vita. È un concetto che si porterà dietro per tutto io resto della sua esistenza. Per Jorge il pallone continua sempre a rimbalzare. Anche se a volte non fa rumore. Nel 1986 si trova in Germania. Per lui si tratta di un periodo inquieto, complesso. Tanto che neanche sembra accorgersi che la Selección è saluta sul tetto del mondo. “Mi trovavo a Francoforte, era un momento di difficoltà per me, stavo studiando la lingua e raccogliendo materiale per la mia tesi – ha raccontato alla Gazzetta dello Sport – Non avevo potuto vedere la finale del mondiale e seppi soltanto il giorno dopo che del successo dell’Argentina sulla Germania, quando una ragazza giapponese scrisse sulla lavagna ‘viva l’Argentina’ durante una lezione di tedesco. La ricordo, personalmente, come la vittoria della solitudine perché non avevo nessuno con il quale condividere la gioia di quella vittoria sportiva: la solitudine ti fa sentire solo mentre ciò che attende bella la gioia e poterla condividere”.

Il 3 marzo del 2013 Bergoglio arriva a Roma. Da cardinale. In tasca ha il biglietto per tornare a Buenos Aires e la tessera del San Lorenzo numero 88235. Sopra c’era la sua foto. Gliel’aveva fatta trovare il club nel 2008, quando aveva detto messa per loro. Pensava di tornare a casa subito dopo l’elezione del nuovo Pontefice da parte del Conclave. Dopo la prima notte nella capitale, alle 4.30 del mattino, mandò un sms a padre Alejandro Russo, rettore della cattedrale di Buenos Aires. E secondo Michael Part (autore del libro Il Papa che ama il calcio) c’è scritto: “Arrivato a Roma. Tutto bene. Puoi dirmi quanto ha fatto oggi il San Lorenzo?”. La risposta è immediata. O quasi: “Il San Lorenzo ha battuto il River Plate 2 a 0!”. Jorge ancora non sapeva che sarebbe diventato Francesco I. Ma in quel risultato doveva esserci per forza un qualcosa di divino.

Per tutto il suo pontificato Bergoglio non ha mai smesso di usare il calcio, e lo sport in generale, per spiegare la vita. Come se il pallone potesse diventare una specie di manuale di istruzioni per il buon cristiano. Nel febbraio del 2017 il Villarreal fece visita al Papa. Il sottomarino giallo aveva preso 4 gol dalla Roma nella sfida di andata dei sedicesimi di Europa League e aveva bussato all’Olimpico in cerca di un vero e proprio miracolo. “Mi aiuta molto pensare al calcio perché mi piace, e mi aiuta – disse allora Bergoglio – Ma più di tutti penso al portiere. Perché? Perché deve bloccare la palla dove gliela calciano, non sa da dove verrà. E la vita è così. Bisogna prendere le cose da dove vengono e come vengono. E quando mi trovo di fronte a situazioni che non mi aspettavo, che vanno risolte, e sono venute da lì mentre le aspettavo da là, penso al portiere, perciò vi tengo molto presenti. Grazie”.

Ma c’è un altro tema su cui il Papa ha voluto insistere. E anche parecchio. Ed è quello dell’esempio, della via da mostrare ai giovani. Un concetto che il Pontefice ha rivolto nel maggio del 2016 a Juventus e Milan, finaliste di Coppa Italia: “Ci sono tanti tifosi, specialmente giovani, che vi seguono con simpatia e il fatto di attirare l’attenzione di queste persone, che vi ammirano” si porta dietro l’esigenza di “comportarvi in modo che possano sempre scorgere in voi le qualità umane di atleti impegnati a testimoniare gli autentici valori dello sport. Si tratta semplicemente di dimostrare che ognuno di voi, prima di essere un calciatore, è una persona, con i suoi limiti e i suoi pregi, ma soprattutto con la propria coscienza. Non vengano meno tra voi il gusto della fraternità, il rispetto reciproco, la comprensione e anche il perdono. Il gioco del calcio possa costituire un messaggio positivo per l’intera società”.

Ma è un’idea che espliciterà di nuovo pochi mesi dopo, quando la Nazionale tedesca batterà l’Argentina nella finale dei Mondiali: “Avete responsabilità al di là del campo di calcio, soprattutto verso i giovani che spesso vi prendono come modello. E vi porta anche a impegnarvi insieme per alcuni importanti obiettivi sociali“. Il calcio, però, è solo una parte del tutto. Perché Bergoglio ha compreso la forza dello sport e il suo linguaggio universale. Nel 2013, prima di un incontro proprio con l’Argentina, il Papa aveva ricevuto l’Italrugby. “Ci sono le azioni individuali, le corse agili verso la ‘meta’. Ecco, nel rugby si corre verso la ‘meta’! – disse – Questa parola così bella, così importante, ci fa pensare alla vita, perché tutta la nostra vita tende a una meta. E questa ricerca è faticosa, richiede lotta, impegno, ma l’importante è non correre da soli. Per arrivare bisogna correre insieme, e la palla viene passata di mano in mano, e si avanza insieme, finché si arriva alla meta. E allora si festeggia”.

Ora il San Lorenzo ha fatto sapere che intitolerà a Bergoglio il suo nuovo stadio. E lì dove un tempo risuonavano le gesta di René Pontoni ora rimbalzeranno le parole di Francesco I.

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