Francia o Spagna, qui chiunque ci mangia
- Postato il 4 maggio 2025
- Di Panorama
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Sembra facile fare un buon caffè, diceva il Carosello. E invece, adesso, è diventato un po’ più difficile, a meno che non si parli cinese. Anche la moka Bialetti, infatti, quella resa celebre dall’uomo con i baffi dell’antica pubblicità, è andata all’estero: l’ha comprata un fondo di Hong Kong. Nello stesso tempo il Qatar si dice interessato ad acquistare due dei simboli di Torino: villa Frescot, già dimora storica della famiglia Agnelli, e il palazzo del Lavoro, sede di Italia ’61. Sempre a Torino, il Marocco sta finanziando la nuova mega moschea che sorgerà al posto delle ex fonderie Nebiolo. Ancora meglio gli americani: si comprano direttamente un pezzo di Venezia. L’isola delle Rose, infatti, sta passando nelle mani di un gruppo del Colorado. Non distante c’è l’isola di San Clemente, già sede di un monastero di camaldolesi: è stata acquistata dal gruppo turco Permak che ci ha aperto un hotel di lusso. E lo ha dato in gestione a un gruppo svizzero tedesco.
Benvenuti nell’Italia sempre meno italiana. La Sardegna ormai è colonizzata dai gruppi americani e cinesi che si spartiscono impianti eolici e pannelli fotovoltaici. Mezza Milano è di proprietà dei fondi del Qatar. I vigneti della toscana sono nelle mani di petrolieri argentini, società panamensi e tedeschi specializzati in utensili. E da qualche tempo anche la criminalità si è adeguata: la mafia nigeriana si è impossessata del mercato di droga e prostituzione, gli albanesi sono entrati in affari con la ’ndrangheta, mentre negli ultimi giorni si è fatta avanti in modo prepotente, fra sparatorie e agguati, la mafia cinese che ha scatenato la guerra delle grucce tra Prato e Roma. Che ci volete fare? Non siamo nemmeno più «padrini» a casa nostra. Sono anni che raccontiamo il passaggio di storici marchi italiani in mani estere. Ma ciò che impressiona è che sembra non finire mai. Nel campo alimentare si cominciò addirittura nel 1974 con il passaggio dei gelati Algida alla multinazionale anglo-olandese Unilever: un cuore di panna in salsa di salmone affumicato. In seguito Unilever ha preso anche le confetture Santa Rosa, quelle dei caroselli di Lino Toffolo («Chi ha mangiato la marmellata?») mentre la Nestlè si comprava i baci Perugina, i gelati Motta, l’Antica Gelateria del Corso, Alemagna, San Pellegrino, Acqua Panna e Recoaro, quest’ultimo poi ceduta agli olandesi di Refresco, che hanno comprato anche le acque San Carlo e San Francesco.
Negli anni qualche raro marchio è tornato italiano, ma la sostanza non cambia. Le caramelle Sperlari? Sono tedesche. Le mentine Saila? Pure. Orzo Bimbo? È francese. Pummarò e dado Star? Sono spagnoli. Le Fattorie Osella? Sono americane come la Martini&Rossi. Gancia? Di proprietà dei russi. L’olio Carapelli? Degli spagnoli. Olio Sasso e olio Bertolli? Pure. Gli yogurt della Fattoria Scaldasole? Francesi. Parmalat? È francese. Plasmon? È passata al colosso Usa Heinz specializzato in ketchup. E se si esce dal settore alimentare non va molto meglio: la più antica fabbrica italiana di biciclette, la Bianchi, fondata a Treviglio in provincia di Bergamo nel 1885 da un ex martinitt che ha messo in sella tutti i più grandi campioni della storia del nostro ciclismo, da Girardengo a Coppi, da Gimondi a Pantani, è da tempo di proprietà di un colosso svedese che per altro si occupa di stampanti digitali e valvole idrauliche. E l’altra storica azienda di bici, la Atala, fondata a Monza nel 1908, e capace di coprirsi di gloria al primo giro d’Italia (1909), dopo oltre un secolo di memorie e vittorie, è diventata olandese.
Verrebbe voglia di dire: avete voluto le nostre biciclette? Adesso pedalate. Il problema è che siamo noi che non pedaliamo più. E infatti pure con i motori non andiamo meglio: la Ducati è tedesca, la Lamborghini pure, gli yacht Ferretti sono cinesi. Nella moda abbiamo avuto di recente una piccola riscossa con Prada che ha riportato in Italia Versace, già venduta agli americani: ma i due terzi del nostro made in Italy del lusso resta nelle mani straniere. Valentino è del Qatar. Krizia è cinese. Curiel pure. Ferré è del Dubai. Borsalino è passata a uno svizzero, Mandarina Duck a un coreano, Corneliani a un fondo del Barhein. E lo so che ogni volta che è stato ceduto un marchio all’estero abbiamo sentito lo stesso ritornello: «Lo facciamo per crescere». Ma è vero? Bisognerebbe chiederglielo agli operai degli stabilimenti che sono stati chiusi non appena la proprietà è passata all’estero. Perché la verità è che l’unica cosa che cresce, quando la proprietà di un bene italiano va all’estero, sono i guadagni per loro. E l’amaro in bocca per noi.
Ci avevano raccontato che questa stagione della svendita sarebbe finita, che avrebbero messo un freno, che cominciava l’era del sovranismo e che le multinazionali non sarebbero più state padrone e soprattutto predone. Invece da Bialetti all’isola di Venezia sembra che non cambi mai nulla. Tutto come sempre. Franza o Spagna, chiunque ci magna.