Gaza, il grande piano di Trump per rifare il Medio Oriente

  • Postato il 26 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Lo storico accordo tra Israele e Hamas ha rappresentato un successo diplomatico di prim’ordine per Donald Trump.
Il presidente americano, che il 13 ottobre ha partecipato alla cerimonia per la firma dell’intesa a Sharm el-Sheikh insieme a Giorgia Meloni e ad altri leader internazionali, non ha riscosso soltanto il deciso apprezzamento dello Stato ebraico ma ha anche ricevuto parole di gratitudine dal sindaco di Gaza City, Yahya Al-Sarraj.
Ringraziamenti a The Donald sono addirittura arrivati dall’Anp e da un alto esponente della stessa Hamas, come Yalda Hakim. Insomma, per quanto la situazione complessiva resti delicata, il tycoon è riuscito nell’impresa di mettere d’accordo israeliani e palestinesi.

La “Trump Declaration” e il ruolo dei Paesi arabi

Senza poi trascurare il sostegno che la Casa Bianca ha ricevuto dalla Turchia e dai Paesi arabi, a partire da Qatar ed Egitto: non a caso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani e il leader egiziano Fattah al-Sisi hanno sottoscritto, nella località di mare, la Trump Declaration for enduring peace and prosperity.
È allora forse utile porsi due domande distinte ma complementari: come ha fatto a raggiungere questo risultato? E soprattutto: qual è il progetto che il presidente americano ha in serbo per il Medio Oriente del futuro?

La linea dura contro l’Iran

Cominciamo subito col dire che, appena tornato alla Casa Bianca, Trump ha drasticamente cassato la politica mediorientale dell’amministrazione Biden.
Differentemente dal predecessore, l’attuale inquilino ha infatti attuato una linea dura nei confronti dell’Iran: non solo ha ripristinato la politica della “massima pressione” sugli ayatollah ma ha anche bombardato i loro siti nucleari.
Attenzione, questo non vuol dire che il tycoon abbia promosso un approccio totalmente intransigente: ha infatti tentato, tra aprile e maggio, di raggiungere con Teheran un accordo sull’energia atomica.
Quello che ha fatto è semmai aver collegato il bastone alla carota, colpendo l’Iran a suon di bombe e sanzioni, quando lo ha ritenuto necessario: un atteggiamento ben diverso dall’appeasement che Sleepy Joe aveva promosso verso il regime khomeinista.

Due obiettivi centrati: indebolire Hamas e rassicurare Israele

Ebbene, adottando questa politica, Trump ha raggiunto due obiettivi.
Ha innanzitutto indebolito Hamas, che è notoriamente uno dei principali proxy della Repubblica islamica.
In secondo luogo, i raid aerei americani di giugno sui siti nucleari iraniani hanno rassicurato Israele e Arabia Saudita: due Paesi che temono le ambizioni atomiche del regime khomeinista.
Al contempo, pur garantendo un significativo sostegno a Gerusalemme, Trump ha evitato di schiacciarsi totalmente sulle posizioni di Benjamin Netanyahu.
Prova ne è la sua irritazione per l’attacco condotto dallo Stato ebraico su Doha lo scorso settembre: il presidente americano ha di fatto imposto al premier israeliano di scusarsi con i vertici del Qatar, garantendo inoltre a quest’ultimo un rafforzamento dei rapporti nel settore della Difesa.
Tutto questo, senza trascurare la sponda con l’Arabia Saudita: da quando l’attuale presidente è tornato al potere, Washington ha consolidato le relazioni con Riad.
Infine, Trump ha anche costruito un rapporto solido con Erdogan, allentando le sanzioni al regime filoturco di Damasco.

Le basi della pace: Gaza e gli Accordi di Abramo

Questo approccio articolato ha permesso al presidente americano di gettare le basi affinché l’accordo di pace fosse concluso.
Non solo ha indebolito Hamas, colpendo l’Iran, ma ha anche ottenuto che Ankara e i Paesi arabi mettessero l’organizzazione palestinese sotto pressione per accettare l’intesa.
Al contempo, ha tenuto a freno il governo israeliano, impedendogli di far deragliare i rapporti con le monarchie del Golfo.
Il tutto ha trovato il suo fulcro sia nella promessa della ricostruzione di Gaza (attorno a cui ruotano interessi economici e geopolitici) sia nel tentativo di rilanciare e ampliare gli Accordi di Abramo.

Il Medio Oriente del futuro secondo Trump

Ed è qui che arriviamo al Medio Oriente che Trump vuole costruire.
Per capirlo, bisogna tornare allo scorso maggio, quando visitò Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar.
In quell’occasione, tenendo un discorso a Riad, delineò i tratti dell’area mediorientale del futuro:
«Davanti ai nostri occhi, una nuova generazione di leader sta trascendendo gli antichi conflitti e le stanche divisioni del passato e forgiando un futuro in cui il Medio Oriente è definito dal commercio, non dal caos».
E aggiunse: «È fondamentale che il mondo intero si renda conto che questa grande trasformazione non è stata causata da interventisti occidentali o da persone che viaggiano su splendidi aerei e vi danno lezioni su come vivere e come governare i vostri affari».
In quello stesso discorso, Trump auspicò che l’Arabia Saudita aderisse presto agli Accordi di Abramo.

Rilanciare i rapporti con il mondo arabo

È qui il cuore pulsante del progetto di Trump: rilanciare i rapporti con il mondo arabo sulla base di un approccio paritetico, lontano dal paternalismo che ha spesso caratterizzato Washington negli ultimi decenni.
Tutto questo rientra nella ripresa e nell’espansione degli Accordi di Abramo, con l’obiettivo di normalizzare i rapporti tra mondo arabo e Israele in vista di una stabilizzazione duratura della regione.
In questo senso, il ruolo dell’inviato speciale Steve Witkoff e del genero Jared Kushner è stato cruciale: entrambi hanno svolto una funzione di raccordo tra Washington, Gerusalemme, Riad e Doha.
Hanno avuto un peso significativo sia nella liberazione degli ostaggi rapiti da Hamas sia nella stesura del piano di pace presentato dalla Casa Bianca, che riconosce ai Paesi arabi un ruolo chiave nel futuro di Gaza.

Turchia e Iran, le due incognite

La sfida principale per Trump sarà integrare nel sistema di Abramo la Turchia e l’Iran.
Come detto, al netto di alcuni attriti sul petrolio russo, i rapporti tra Washington e Ankara sono migliorati.
Trump ha teso la mano al nuovo regime siriano filoturco ed Erdogan, dal canto suo, ha premuto su Hamas affinché accettasse il piano di pace americano.
Le incognite però restano: i rapporti tra Ankara e Gerusalemme sono pessimi e complicano la possibilità di inserire la Turchia nel quadro di Abramo.
Inoltre Erdogan, vicino alla Fratellanza musulmana, è un leader spregiudicato e imprevedibile, non sempre affidabile come garante di stabilità.
Tuttavia, il “sultano” ha bisogno del sostegno americano per proteggere i propri alleati a Damasco.

Il nodo Iran e la partita con Russia e Cina

L’altro punto interrogativo riguarda l’Iran.
Trump ha più volte detto di auspicare un’intesa sul nucleare con Teheran, che impedisca agli ayatollah di acquisire la bomba atomica.
A settembre, ha perfino aperto alla possibilità che il regime khomeinista un giorno aderisca agli Accordi di Abramo.
La strategia è chiara: rendere l’Iran inoffensivo dal punto di vista atomico, rassicurare israeliani e sauditi e poi cercare di integrarlo nel sistema mediorientale in costruzione.
Ma non sarà facile: i colloqui Washington-Teheran sono fermi e l’Iran resta alleato di Russia e Cina.
Mosca, indebolita dalla caduta di Assad in Siria, tenta ora di mediare tra Teheran e Washington per rientrare in partita, mentre Pechino vede nel ritorno americano in Medio Oriente una minaccia ai propri interessi strategici.
Non è un caso che la Cina abbia accolto l’accordo tra Israele e Hamas in modo freddo e generico, mentre la Russia lo ha appoggiato calorosamente.

Un nuovo equilibrio e un risultato storico

Tutto questo dimostra come la politica di Trump punti a recuperare terreno per Washington nella regione, arginando l’influenza cinese e isolando l’Iran.
Il summit di Sharm el-Sheikh ha infatti evidenziato come Teheran sia sempre più isolata sul piano regionale.
E questo potrebbe, alla fine, spingerla ad ammorbidirsi, avviando nuove trattative sul nucleare e accettando, un giorno, di essere integrata nel sistema di Abramo.
Non a caso, durante il summit del 13 ottobre, Trump, sedendo accanto ad al-Sisi, si è mostrato nuovamente aperto a un’intesa con gli ayatollah.

Le incognite restano, ma è altrettanto vero che l’attuale presidente americano sta riuscendo dove molti suoi predecessori hanno fallito: si intravede la fine del conflitto israelo-palestinese e si ridisegnano gli equilibri del Medio Oriente.
Il tanto vituperato Trump potrebbe dunque portare a casa un risultato storico. Con buona pace di tutti quei soloni che lo hanno sempre demonizzato e deriso.

Autore
Panorama

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