Gaza, tra il dire e il fare ci sono 61 milioni di tonnellate di macerie. Ecco le stime realistiche di un incubo
- Postato il 10 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La devastazione infrastrutturale ha proporzioni inedite. La più recente stima del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) indica che la distruzione o il danneggiamento di circa 250 mila edifici ha prodotto un volume di circa 61 milioni di tonnellate di macerie, diciassette volte la somma di tutti i detriti prodotti dai precedenti bombardamenti a Gaza dal 2008. Secondo le fonti più accreditate, rimuovere e processare questa massa enorme richiederà decenni, anche al netto degli imprevisti. Perché Gaza è anche un cimitero dove si stima che almeno 12 mila corpi siano ancora sepolti sotto le macerie. Chi è rimasto dovrà invece fare i conti con suoli e acque contaminate, e con la perdita e la distruzione dei registri di proprietà, sempre che si vogliano davvero riconoscere i diritti.
Quanto ci vorrà per rimuovere le macerie a Gaza? – Il lavoro di smaltimento si articola in due fasi: la rimozione e il trasporto iniziale, e la successiva lavorazione per il riciclo del materiale idoneo. Per la sola fase di rimozione dei detriti, le Nazioni Unite hanno stimato che potrebbero volerci fino a 15 anni. Calcolo elaborato ipotizzando l’uso di una flotta di 105 autocarri con capacità di 19 tonnellate (circa 17,24 tonnellate metriche), attivi su turni di 8 ore per 30 giorni al mese. Uno studio pubblicato a luglio (Samer Abdelnour e Nicholas Roy su Environmental Research: Infrastructure and Sustainability) stima che il trasporto delle macerie richiederà oltre 2,1 milioni di carichi di autocarri, coprendo una distanza equivalente a circa 736,5 volte la circonferenza terrestre. Ma lo studio si basa sui primi 14 mesi di conflitto, fino al primo dicembre 2024, quando le macerie erano circa la metà, 36,8 milioni di tonnellate. Anche i calcoli delle Nazioni Unite, fatti quanto le tonnellate erano circa 50 milioni, vanno aggiornati, portando i tempi necessari a più di 20 anni. Per non parlare delle strade: già un anno fa il Centro Satellitare delle Nazioni Unite (UNOSAT) stimava che circa il 31% della rete stradale a Gaza è stata moderatamente danneggiata, l’8,9% gravemente danneggiata e il 25,4% distrutta.
Decenni solo per la frantumazione – Ma il vero dilemma riguarda la fase successiva, quella della lavorazione o frantumazione, che allunga i tempi in modo drammatico, anche a causa delle restrizioni sull’accesso a macchinari industriali pesanti. Lo studio di Abdelnour e Roy intitolato ‘Trattamento dei detriti provenienti dagli edifici distrutti e danneggiati a Gaza: emissioni di carbonio, tempi e implicazioni per la ricostruzione’ ipotizza scenari diversi, calcolando il trattamento dell’80% dei detriti, quelli non contaminati e idonei alla frantumazione. Nello scenario “ottimale” entra in campo una flotta di 50 macchinari industriali per frantumare le macerie, i cosiddetti frantoi a mascelle ad alta capacità, per un lavoro da 400 tonnellate l’ora che richiederebbe poco più di sei mesi. Peccato che “non sono attualmente disponibili a Gaza”, segnala lo studio. E questo per le restrizioni imposte all’ingresso di macchinari pesanti e parti di ricambio, pratica di lungo corso che andrebbe appena rinegoziata. Ecco il perché dello scenario “realistico”, che prevede una flotta di 50 frantoi più piccoli (“tipo primario utilizzato in Gaza”) che per fare lo stesso lavoro ci metterebbe quattro decenni. Stima che va però aggiornata e finisce per superare i 60 anni.
Ordigni, Contaminazione e Blocchi – Ad aprile le Nazioni Unite stimavano che 12 mila vittime fossero ancora sepolte sotto gli edifici distrutti. L’urgenza di rimuovere i detriti si scontra dunque anche col delicato compito di individuare e identificare con attenzione i resti delle vittime, operazioni che richiedono l’intervento di personale specializzato. Tra le incognite c’è poi il rischio elevato di ritrovare ordigni inesplosi (UXO). Il Servizio delle Nazioni Unite per l’azione contro le mine (UNMAS) indica che fino al 10% delle armi esplosive potrebbe non essere detonato. La rimozione delle macerie è poi “intrinsecamente rischiosa” e richiede il supporto dei team di EOD (Explosive Ordnance Disposal). L’eventuale ritrovamento comporta la sospensione immediata del sito e l’evacuazione del personale. Quanto alle risorse, quelle limitate per EOD a Gaza lasciano supporre “ritardi significativi”. A complicare drasticamente la gestione dei materiali c’è poi la loro contaminazione. Si stima che circa il 15% delle macerie è probabilmente contaminato da amianto, rifiuti industriali e metalli pesanti e vanno gestite come rifiuti pericolosi, col personale EOD dotato di protezioni e tute protettive monouso.
Ricostruzione e diritti – Il recupero post-conflitto, che include la ricostruzione delle abitazioni, richiede tempi ancora più lunghi e difficilmente calcolabili. Basandosi sulle dinamiche di ricostruzione successive a precedenti conflitti, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) ha stimato che per ricostruire le stesse case distrutte sarebbero necessari circa 80 anni. Al contrario, i problemi sono già dietro l’angolo, come le complessità legali relative al riconoscimento dei diritti di proprietà (HLP – Housing, Land, and Property). La situazione legale a Gaza era già confusa, con norme più recenti che configgono con quelle ereditate dall’Ordinanza Britannica sulla Pianificazione Urbana del 1936 e addirittura dal Codice Fondiario Ottomano del 1858. A Gaza si stima che fino al 30% della terra privata non sia registrata, rendendo difficile la risoluzione delle controversie già in tempo di pace. A questo si aggiunge la perdita o distruzione dei registri di proprietà. Il mancato riconoscimento dei diritti HLP fin dalle prime fasi di recupero è considerato un ostacolo tra i più critici alla possibile ripresa. Le organizzazioni come il HLP Working Group al quale partecipano agenzie Onu, ong e istituzioni accademiche, lavora per sviluppare messaggi di sensibilizzazione per “evidenziare l’importanza dei diritti HLP in tutte le fasi” e fornire linee guida vista la diffusa assenza di registri.
L’ambiente, l’altra vittima – Per l’Unep, il recupero dai danni ambientali a Gaza “potrebbe richiedere decenni”. La situazione è “peggiorata drasticamente su quasi tutti gli indicatori” da giugno 2024, lasciando “un’eredità che potrebbe influenzare la salute e il benessere delle generazioni di residenti di Gaza”. Insomma, la rimozione delle macerie e i loro contaminanti potranno solo peggiorare una condizione del suolo e delle risorse idriche che è già compromessa. Le forniture di acqua dolce sono “gravemente limitate e gran parte di ciò che resta è inquinato”. Il crollo delle infrastrutture per il trattamento delle acque reflue, la distruzione dei sistemi di condutture e l’affidamento a pozzi neri hanno probabilmente “aumentato la contaminazione della falda acquifera” che fornisce la maggior parte dell’acqua di Gaza. Tanto che, avverte l’Unep, anche le aree marine e costiere sono “sospettate di essere contaminate” a causa del crollo di queste infrastrutture. Secondo l’Aggiornamento sulla Situazione Umanitaria delle Nazioni Unite dello scorso 2 ottobre, il danno alla terra coltivabile è massiccio: dal 2023, la Striscia di Gaza ha perso il 97% delle sue colture arboree, il 95% della sua boscaglia e l’82% delle sue colture annuali, rendendo di fatto impossibile la produzione alimentare su larga scala. Il tutto aggravato dall’uso estensivo degli esplosivi, la cui potenza totale è ritenuta essere tre volte quella combinata delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
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