Genova e l’acciaio, qui si fece l’Italia del boom, il futuro dipende dalla politica

  • Postato il 3 agosto 2025
  • Politica
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L’acciaio che torna è un incubo per Genova o è la possibilità di una riscossa in un territorio de-industrializzato e che cerca un futuro diverso dalla sua storia?

Questo forno elettrico, che il ministro Adolfo Urso di Fratelli d’Italia vorrebbe impiantare a Cornigliano, dove sorse la prima acciaieria a ciclo integrale d’Europa, sta togliendo il sonno e spaccando la città appena approdata a un nuovo governo di centro sinistra con la giovane sindaca Silvia Salis.

L’acciaio di Genova

Genova e l’acciaio, qui si fece l’Italia del boom, il futuro dipende dalla politica
Genova e l’acciaio, qui si fece l’Italia del boom, il futuro dipende dalla politica – blitzquotidiano.it (foto Ansa)

Il forno produrrebbe 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno e richiederebbe una mano d’opera di almeno 600 operai. La sua collocazione nello spazio che ha visto succedersi nei decenni la famiglia Perrone, poi l’Italsider dell’Iri, poi l’Ilva della famiglia Riva, poi Acelor Mittal degli indiani e che ora vedrebbe Acciaierie d’Italia come padrone della fabbrica, è una specie di provocazione, perché riaccende nel senso vero del termine la grande questione che ha attanagliato non solo Genova, ma la politica in generale: ambiente o lavoro.

Cornigliano è di nuovo l’epicentro di questo dilemma, che Genova ha vissuto dalla fine degli anni Ottanta del Novecento fino al 2005, quando un accordo di programma regolò l’equilibrio tra la produzione a freddo dell’acciaio e i confini di un’area considerata l’Eldorado della città, uno spazio affacciato sul mare, dedicato all’industria pesante, ma che spento il forno a caldo, distrutte le cokerie, assumeva un’altra dimensione e proponeva un altro destino.

Che non è maturato mentre passavano sindaci, presidenti di regione e di porto, governi romani di tutti i colori. Là dentro restava quella produzione di acciaio a freddo, in un equilibrio sottile per l’occupazione, essendo una fabbrica che lavorava il prodotto pretrattato a Taranto. Dove è successo quello che è successo con l’acciaieria e la città.

Allora a Genova la cassa integrazione (che riguarda ancora centinaia di lavoratori sotto la spada di Damocle di una chiusura) e i punti interrogativi hanno incominciato a riempire quello spazio enorme che faceva gola al porto, alle decine di migliaia di container dei trasportatori, come Aldo Spinelli, che non sapevano dove metterli, ai possibili autoparchi che a Genova non esistono malgrado 5 mila Tir al giorno in giro tra autostrade e porto. Alle altre iniziative imprenditoriali di una città dagli spazi soffocati.

Vivere o non vivere a Cornigliano

Che facciamo a Cornigliano? Ecco il grande interrogativo che ora il forno elettrico di Urso tronca traumaticamente perché porta tutto indietro, mentre davanti non è stato programmato nulla.

Solo l’allora presidente della regione degli anni 2000 e 2005 Sandro Biasotti, centro destra, un self made man dell’autotrasporto, sceso in politica e diventato fedele di Berlusconi, aveva immaginato un futuro diverso per quell’area convocando cooperative e imprenditori del Nord Italia.

Gli industriali genovesi, che allora erano dominati da Riccardo Garrone, il padrone della Erg, allora grande petroliere, lo incenerirono con un progetto alternativo.

E ora siamo punto e a capo perché parlare di acciaio in quella delegazione del Ponente genovese, che aveva perfino recuperato ambientalmente le strade intorno all’acciaieria, un tempo camere a gas con record mondiali per inquinamento, è come resuscitare i peggiori cadaveri di un incubo comunque rimosso.

Per anni la battaglia per eliminare l’inquinamento è stata una delle emergenze che ogni amministratore pubblico ha dovuto fronteggiare. Lo scontro era continuo perché avveniva in una città che stava perdendo decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria Iri, che aveva sfamato Genova e favorito una massiccia immigrazione interna.

E ora contro il “mostro”, così chiamavano l’altoforno che sputava fuoco e fiamme giorno e notte annerendo le lenzuola stese dalla mamme, dalle donne di Cornigliano, nelle case intorno alla grande fabbrica, imponendo la chiusura delle finestra sempre notte e giorno, inverno ed estate, si schieravano comitati e partiti, a incominciare dalle donne diventate eroine nella persona di figure passate oramai nella leggenda genovese, come Leila Maiocco e Patrizia Avagnina, che assediavano i palazzi del potere con cortei, manifestazioni, mobilitazioni.

E dall’altra parte il sindacato, allora ancora forte e duro, altro che il corpo intermedio di oggi, una falange che, però, ideologicamente, politicamente, militava dalla stessa parte delle donne.

Noi giovani cronisti di allora siamo stati battezzati dai servizi che facevamo nelle nuvole nere dei fumi, sotto le finestre di quei lenzuoli anneriti dalla fuligine, dentro assemblee di fuoco, dove ambiente e lavoro battezzavano la loro prima grande contesa, ben prima che si parlasse di de carbonizzazione, di energie alternative, di cambi climatici.

Lì si contavano i morti per cancro da altoforno e si contemplava quella specie di apocalittico Stige, che era il confine tra la fabbrica e le case, dove Caronte erano le tute blu’ degli operai, che uscivano dai loro turni e si tuffavano in un quartiere assediato dal fumo che loro stessi producevano.

Quando tutto questo ha incominciato a cambiare, quando le strade, la gente hanno incominciato a respirare in una nuova coscienza che si stava costruendo non solo a Genova, sembrava che fosse veramente finita una epoca.

La politica quella regionale e quella nazionale avevano trovato la mediazione. Lo spegnimento dell’altoforno a caldo era stato come la demolizione di una idea di fabbrica, quella insediata a Genova dalla politica cavouriana, che era cresciuta al tempo della prima guerra mondiale con l’avvento della famiglia Perrone ai vertici dell’Ansaldo e aveva costruito poi la prima acciaieria, non solo i cantieri delle navi e tutto il resto della grande manifattura in quel triangolo tra Cornigliano, il ponente genovese intero e la valle Polcevera.

Dove l’industria aveva trovato la sede di stabilimenti immensi, pubblici e privati, cancellando non solo il cielo, ma anche il mare, riempito per costruire proprio il ciclo continuo della grande fabbrica dalla quale sarebbe uscito l’acciaio che dopo, finita la seconda guerra, avrebbe modernizzato l’Italia dal fatidico 1954 del ciclo continuo, appunto, il primo in Europa, producendo i materiali per costruire tutte le macchine, le automobili, dalla mitica 600 Fiat in avanti, gli elettrodomestici, producendo, insomma il progresso.

E in mezzo, in nuce , c’era appunto l’acciaio, che aveva imposto a Genova quel sacrificio incalcolabile, irrisarcibile per generazioni del mare riempito delle colline rosicchiate per creare il materiale che andava al posto delle onde, riempendo i cassoni sprofondati in acqua, distruggendo le spiagge, cancellando le ville di un tempo, perfino i castelli di una costa un tempo incantevole. Tutto in nome dell’acciaio. In nome del progresso, dell’industria e del lavoro.

Ecco perché oggi questa storia dell’acciaio che torna riapre una ferita che non si è mai chiusa e che si era aperta generazioni fa’ e si era tramandata e forse adesso è anche ingiustificato ricordarla per i nipoti dei nipoti che hanno ricevuto una eredità oramai sovrapposta da realtà tanto diverse. Fine delle fabbriche, arriva la tecnologia, il computer, i robot fabbricati lì vicino nella IIT; Istituto Italiano di tecnologia.

Altro che tute blù!

Come sarà questo forno elettrico che Urso vuole far costruire a Genova e che tutti gli acciaieri d’Italia riuniti sostengono ovviamente e che il governo e la destra anche genovese auspicano in una storia che capovolge se stessa?

La giovane sindaca Salis, che probabilmente non può ricordare quelle ferite e quelle battaglie sopratutto femminili di 40 anni fa, che magari muovono la sua sensibilità di figlia di operai, prende tempo, chiede prudenza, aspetta i dettagli.

E che potrebbe fare in questa tenaglia tra l’occupazione e il destino di una città che comunque cercava una reindustrializzazione e l’anima ferita da una memoria così forte di quello che fu ed è ancora l’acciaio?

Intanto a Roma Urso accelera tutto e il grande piano che prevede tre forni elettrici a Taranto, una nave rigassificatrice fissa alla diga foranea pugliese e investimenti totali di 9 miliardi per lavori che potrebbero essere conclusi nel 2032 ,vuol dire una cosa sola: che il governo punta a una politica industriale finora latitante.

Non a caso a Roma, convocati dal ministro, arriveranno tutti i big siderurgici, dalla Emma Marcegaglia a Tonino Gozzi di Duferco, presidente di Federacciai, a Banzato delle Acciaierie Venete e Pasini di Federalpi.

I forni elettrici in costruzione rendono appetibili i nuovi impianti, compresa Genova e Novi Ligure. E tutto questo a parte la grande tensione di Taranto dove il sindaco Bitetti è dimesso, ma potrebbe rientrare strategicamente sulla scena dopo i suoi scontri con gli ambientalisti, davanti a un piano meno duro. Il ministro ha in calendario anche incontri con tutto il sindacato.

Tutto questo a Genova, dove la partita è molto più ristretta, non è ancora cominciato anche se la tensione è forte. Forse è la prima grande partita che la nuova amministrazione deve giocare perché le tensioni sulle infrastrutture, come il famoso Skymetro, fanno parte di un’altra partita. E questa partita industriale è dura come l’acciaio del quale si discuterà a lungo.

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Blitz

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