Gli effetti di una rivoluzione giudiziaria

  • Postato il 7 maggio 2025
  • Di Panorama
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Ho conosciuto Francesco De Lorenzo quando era già caduto in disgrazia, trasformato da potente della prima Repubblica in reietto della seconda. Fino al 1993 era stato ministro della Salute del governo Andreotti, riverito e osannato, ma nei mesi dell’anno successivo venne trascinato in manette davanti al tribunale di salute pubblica della «rivoluzione» giudiziaria, insultato e dannato. Le immagini dei tg che lo mostravano in attesa di giudizio, smagrito e malato dopo settimane di detenzione, mi spinsero a pubblicare un articolo per chiedere conto di quella carcerazione preventiva. Di certo non ricorrevano i pericoli di fuga, né di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove: dunque, mi chiesi, perché tenerlo dietro le sbarre. Analoghi interrogativi li ho rivolti anche in altri casi, non solo per De Lorenzo, e anche adesso come trent’anni fa penso che gli arresti prima della condanna definitiva, in un Paese civile e democratico, debbano essere un’eccezione, da ordinarsi solo di fronte a un assassino che rischi di ammazzare qualcuno se lasciato in libertà.

Ma le manette prima del giudizio non furono la sola anomalia del caso De Lorenzo. La procura lo accusava di aver preso soldi dalle industrie farmaceutiche, per favorire la messa a disposizione del servizio pubblico di qualche medicina. Come abbiamo appreso dal recente caso Almasri, i magistrati appena ricevuta la notizia di reato avrebbero dovuto astenersi e trasmettere gli atti al tribunale dei ministri.

Invece, si guardarono bene dal passare la palla ai colleghi: mettere sul banco degli imputati un pezzo grosso della politica, allora come ora dava notorietà. Se poi si aggiunge che in quella stagione i pm titolari di indagini sui potenti agli occhi dell’opinione pubblica apparivano eroi, si capisce perché nessuno eccepì.

La procura convocò testimoni e arrestò i presunti colpevoli, poi, quando finalmente si ristabilì la competenza del tribunale dei ministri su ordine della Cassazione, l’indagine – invece di ripartire da capo – tirò diritto. Con un provvedimento che solo in Italia si può vedere, i giudici decisero che i verbali di interrogatorio fossero validi e dunque, pur se raccolti con modalità illegittime, le testimonianze vennero prese per buone. Anche quelle ottenute con il tintinnìo di manette, per usare un termine coniato dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il quale, dopo essere stato salvato dai pm di Roma per il caso dei fondi neri del Sisde, si guardò bene però dal tornare sulla faccenda degli arresti facili.

Alla fine, si arrivò al processo, ma invece di vedere sul banco degli imputati tutte le persone coinvolte, a sedere sulla poltrona scomoda del reo fu il solo De Lorenzo. Per tutti gli altri indagati il giudizio venne rinviato a un nuovo processo da tenersi separatamente, in quanto nessuno di loro ricopriva incarichi ministeriali, anche se secondo le accuse avevano avuto un ruolo fondamentale nella gestione e nell’incasso delle mazzette. Risultato: De Lorenzo venne condannato a cinque anni di carcere per finanziamento illecito ai partiti e corruzione. I suoi coimputati furono in gran parte assolti, o per prescrizione o per altro. L’ex ministro divenne dunque il capro espiatorio perfetto al quale addossare ogni responsabilità.

La Cassazione stabilì che non si fosse arricchito, cioè non avere ricevuto denaro per sé, perché i fondi erano finiti nelle casse del Partito liberale, di cui De Lorenzo faceva parte. In sede di giudizio non furono portati esempi di atti contrari ai doveri d’ufficio, ovvero quali farmaci avesse agevolato illegalmente, ma a condannarlo bastarono i soldi ricevuti dal Pli tramite alcuni suoi collaboratori. E anche se la spesa sanitaria in quegli anni diminuì, De Lorenzo fu condotto in carcere. Dopo aver scontato la pena si è tenuto lontano dalla politica, dedicandosi al volontariato a favore dei malati oncologici, però la maledizione della sua rovinosa caduta lo accompagna da allora, con un risentimento senza pari. L’ultimo esempio riguarda il vitalizio da ex parlamentare, che prima gli era stato tolto e poi di recente restituito, con il voto pure dei grillini.

Sarà perché non mi piace l’accanimento sui perdenti, sarà perché sono incline a perdonare dopo tanti anni gli errori (anche se non ne approfittò personalmente, non aver denunciato il meccanismo delle tangenti fu sicuramente uno sbaglio), sta di fatto che tutta questa indignazione nei confronti di De Lorenzo – che pure fu un buon ministro della Salute – mi pare eccessiva.

Ci sono politici, ma anche imprenditori, che, pur avendo partecipato al sistema, sono stati graziati e hanno goduto di una rimozione collettiva. Vi dice niente il nome di Carlo De Benedetti? A trent’anni di distanza, nessuno ricorda la storia dei telex venduti alle Poste e nemmeno il pagamento di una mazzetta da dieci miliardi di lire e il fermo durato mezza giornata. Ma De Lorenzo non aveva la tessera numero uno del Pd, solo quella del Pli.

Autore
Panorama

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