Grecia, 13 ore di lavoro al giorno. Quando la vita diventa un’assurdità
- Postato il 23 ottobre 2025
- Editoriale
- Di Paese Italia Press
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di Massimo Reina
La notizia è passata quasi inosservata, come accade alle cose davvero gravi: il Parlamento greco ha approvato una legge che permette di lavorare fino a 13 ore al giorno, su base “volontaria”. Una riforma che, in altri tempi, sarebbe stata letta come una regressione civile. Oggi, invece, viene celebrata come “modernizzazione”.
Ma moderna rispetto a cosa? E soprattutto, a vantaggio di chi?La verità è che ci stiamo abituando a tutto. Alla povertà, alla precarietà, alla guerra, alla menzogna, e ora anche alla schiavitù travestita da scelta. Si lavora di più non per vivere meglio, ma semplicemente per sopravvivere, per pagare bollette sempre più alte, per non perdere l’assicurazione sanitaria, per non essere sostituiti da qualcuno più disperato.
Il concetto di “lavoro” — un tempo nobile, persino identitario — si è trasformato in una punizione a tempo indeterminato. Non ci sono più catene visibili, solo contratti capestro, mutui insostenibili, turni infiniti e silenzio. Un silenzio assordante, quello dei governi, delle istituzioni europee, dei media beneducati. Nessuno che dica: “Questo è disumano”.
Eppure lo è.Ciò che accade in Grecia riguarda tutti noi. Non è un caso isolato. È una prova generale, una forma di laboratorio sociale in cui si testa quanto può resistere l’essere umano prima di spezzarsi. Perché non c’è bisogno di una dittatura, oggi, per schiavizzare le persone. Basta svuotare il frigorifero e gonfiare le bollette. La costrizione economica è il nuovo manganello. E il ricatto quotidiano è la nuova frusta.
Quando l’uomo è privato della possibilità di scegliere, anche una vita “libera” può diventare una condanna. Ciò che ci si chiede non è solo di lavorare: è di accettare in silenzio una condizione di stanchezza cronica, frustrazione e paura. È questo il vero veleno.
A rendere ancora più inquietante questa riforma è il modo in cui viene giustificata: si parla di “produttività”, di “efficienza”, di “flessibilità”. Termini che in apparenza sono neutri, ma che nel contesto attuale significano una cosa sola: svuotare la vita dell’individuo di ogni senso che non sia quello economico. Il cittadino è ridotto a produttore. Il tempo libero è considerato improduttivo. Il pensiero critico, sovversivo. Il riposo, un lusso.
Ecco perché la legge greca è pericolosa. Perché non si tratta solo di ore. Si tratta di una visione del mondo. Un mondo in cui l’uomo non ha più valore in quanto essere umano, ma solo in quanto ingranaggio. Finché produce, esiste. Quando crolla, si cambia pezzo.
L’indifferenza con cui questa notizia è stata accolta in Europa è il segno più evidente della nostra rassegnazione. Nessuno più si scandalizza. Nessuno più si indigna. L’inferno è diventato “normale”. Si ride dei poveri, si colpevolizzano i disoccupati, si biasimano i malati per la loro “scarsa resilienza”.
In tutto questo, dove sono i sindacati? Dove sono gli intellettuali? Dove sono i paladini dei diritti umani?
Forse sono impegnati a lottare per le cause giuste nei modi sbagliati. Forse hanno semplicemente smesso di credere che esista ancora qualcosa per cui lottare. E allora si resta zitti, ognuno nel proprio dolore privatizzato, individuale, impotente. Ed è proprio questo il punto: il lavoratore non è più una classe, è un individuo isolato. E l’isolamento è la prima vittoria del potere.
L’unica via d’uscita, forse, è ritrovare il senso della rivolta interiore. Non per distruggere il mondo, ma per rifiutare di accettarlo così com’è. Camus scriveva:
“La rivolta è l’assurdo che si erge contro l’assurdo.”
Oggi questo significa dire no. No alla violenza travestita da efficienza. No alla sottomissione camuffata da contratto. No all’oblio della dignità.
Perché senza dignità, non siamo cittadini: siamo solo strumenti usa e getta.
E nessuna economia può chiamarsi sana se si fonda sulla disumanizzazione silenziosa di milioni di esseri umani.
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