Guerra o pace? Il vero contro-ultimatum di Mosca. L’opinione di Pellicciari
- Postato il 18 maggio 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Ahinoi, il vertice russo-ucraino a Istanbul conferma lo stato di confusione dei media occidentali davanti al nuovo quadro internazionale. Opinionismo che sovrasta l’analisi dei fatti, interpretazioni su griglie precostituite, raffigurazioni compulsive, dietroscenismo romanzato, difesa ad oltranza delle narrative di riferimento.
Sono sintomi di un giornalismo geopolitico in piena ansia da prestazione, alla costante rincorsa degli eventi. Capace di dire tutto e il suo contrario tra ieri e oggi. E dimenticarsene domani.
Persi in questo loop, di fronte all’irrituale dichiarazione stampa notturna con cui Vladimir Putin ha proposto di riprendere ad Istanbul i negoziati russo-ucraini interrotti nel 2022, i principali osservatori hanno commesso due importanti passi falsi.
Abbaglio vs dilemma
Il primo è stato un abbaglio sull’eventuale partecipazione del presidente russo ai negoziati. Si sono azzardate previsioni senza interrogarsi né sulla reale plausibilità del gesto né sulla sua compatibilità con il codice politico russo. In un primo momento, travisando (più o meno consapevolmente) la parole di Putin, molti hanno dato per scontata la sua presenza ad Istanbul, al punto da farne una breaking news.
Nei giorni successivi, si è aperto un dibattito interno al fronte occidentale, ipotizzando che a Mosca regnasse fino all’ultimo un’indecisione in merito. Con le dichiarazioni del presidente ucraino Volodimir Zelensky e della rappresentante Ue per gli Affari Esteri Kaja Kallas a dare un significato tattico eccessivo alla presenza di Putin ad Istanbul. Come se questa indicasse la reale volontà di Mosca di porre fine al conflitto. Come se da questo singolo aspetto dipendesse il successo o il fallimento dei negoziati.
In realtà, tutti i segnali provenienti dal Cremlino (a partire dalle precisazioni di Yuri Ushakov cui la struttura governativa russa affida una posizione costituzionalmente superiore anche al Ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov) avevano indicato da subito l’alta improbabilità che il presidente russo andasse di persona in Turchia.
Negoziare vs firmare (la pace)
Più che dalla specifica contingenza, questa scelta è dettata da un consolidato modus operandi della politica estera russa. Il formalismo istituzionale e il tecnicismo meccanico che ne caratterizzano la diplomazia, scoraggiano improvvisazioni e mosse imprevedibili. Privilegiano la continuità.
In quest’ottica, la figura del presidente non viene mai esposta in una fase negoziale embrionale e dagli esiti incerti – tanto più se svolta in trasferta – ma entra in gioco solo a intesa raggiunta, per ratificarla.
La decisione di riaprire il dialogo a Istanbul, dunque, punta chiaramente alla continuità con i negoziati del 2022, del cui fallimento il Cremlino ha sempre incolpato Kyiv e Londra. Affidare nuovamente la guida della delegazione russa a Vladimir Medinsky – figura poco nota in Occidente ma chiave nell’inner circle putiniano – serve proprio a rimarcare questo richiamo con il passato.
Difesa del carisma
Vi è poi la necessità di salvaguardare, sul piano interno ed internazionale, il carisma istituzionale del presidente russo. Aspetto sempre centrale nell’architettura del potere russo, ancor più in un momento critico come quello attuale.
Un faccia a faccia tra Zelensky e Putin avrebbe rappresentato per il primo un’occasione di rilancio in un momento del conflitto oggettivamente difficile per l’Ucraina, esponendo però il secondo a un rischio inutile, intaccandone l’immagine solo pochi giorni dopo il bagno di visibilità ottenuto con le celebrazioni dell’80° anniversario della vittoria sul nazi-fascismo.
Inoltre, mettere Putin sullo stesso piano di Zelensky avrebbe fatto apparire i due leader alla pari. Sarebbe sembrato un cedimento simbolico dei russi. Una concessione all’autorità del presidente ucraino. Una forma di equiparazione indebita, in evidente contraddizione con una narrazione russa su Kyiv, che accusa l’attuale leadership ucraina di essere priva di legittimità.
Il contro-ultimatum di Mosca
Passo falso ancora più grave degli osservatori occidentali è stato sottovalutare un altro passaggio della stessa dichiarazione notturna di Putin. Dove si rivelano – peraltro apertamente – i piani russi per il conflitto in Ucraina.
Nel leggere le sue parole come una semplice risposta all’ultimatum imposto dai cosiddetto gruppo dei Volenterosi, non si è colto quello che è il senso di un vero e proprio contro-ultimatum russo.
Nel reiterare il rifiuto alla richiesta occidentale di un cessate il fuoco (Mosca teme che venga utilizzata dagli Occidentali per riorganizzare l’esercito ucraino), Putin ha ribadito un concetto che a prima vista potrebbe apparire ovvio: un nuovo fallimento a Istanbul equivarrebbe a una continuazione del conflitto.
Operazione speciale vs guerra
La novità sta nel come ciò è stato detto. Per la prima volta dal febbraio 2022, Putin ha ventilato l’ipotesi di un passaggio dall’operazione speciale ad uno stato di guerra tout court. Un cambio di paradigma significativo, sancito dall’uso del termine Война (vainà) – mai pronunciato prima in contesti ufficiali.
In nome del tecnicismo formalista di cui sopra, questo upgrade non sarebbe solo retorico. Segnerebbe un salto di livello nel coinvolgimento di Mosca nel conflitto, sia per l’intensità dell’azione che per il considerevole allargamento delle regole di ingaggio che prevede la dottrina militare russa in questo caso.
Si verrebbe a creare il contesto ideale per un’intensificazione dell’iniziativa militare negli imminenti mesi estivi con l’impiego di nuove forze dell’esercito (vedi le nuove divisioni di riserva pronte per il fronte) e l’utilizzo su larga scala dei famigerati missili Орешник (Oreshnik).
Questo darebbe vigore all’idea di una campagna militare che spinga le forze russe fino al fiume Dnepr e al controllo di tutto il versante orientale dell’Ucraina. È un’escalation ancora evocata dai falchi del Cremlino, in particolare tra i ranghi dell’Armiya Rossii, consolidatasi più di ogni altra élite durante i tre anni del conflitto.
Comunque vada, per il patriottismo militare russo tornare dall’eccezionalità dello stato di guerra alla routine delle parate della vittoria sulla Piazza Rossa non sarà facile.