Hanno sfidato la mafia, rischiano la povertà. I testimoni di giustizia a Meloni: “Versateci i contributi”

  • Postato il 25 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Hanno collaborato con lo Stato per incastrare mafiosi e malviventi ma il loro percorso verso una vita normale è sempre più ad ostacoli. È la storia dei testimoni di giustizia, figura riconosciuta dallo Stato (prima equiparata ai pentiti “collaboratori di giustizia”) soltanto nel 2001, che oggi lotta per una adeguata pensione. A lanciare l’allarme è Pietro Nava, testimone di giustizia chiave nell’omicidio del giudice Rosario Livatino, il quale chiede, insieme ai circa 150 testimoni oggi riconosciuti, che vengano versati i contributi pensionistici agli appartenenti a questa categoria anche per gli anni in cui non hanno lavorato in quanto impossibilitati a farlo.

La vita di un testimone di giustizia, dopo l’inizio della collaborazione con lo Stato, viene stravolta una volta che questo entra, insieme alla propria famiglia, nel programma di protezione: viene portato infatti in un’altra località, con altri documenti, girando diversi posti, per anni e sotto falso nome. Una storia che Giuseppe Carini, testimone di giustizia fondamentale nel processo per l’uccisione di don Pino Puglisi, conosce bene. Dal 1995 sotto copertura con altro nome, oggi lancia l’allarme a nome di tutti i testimoni di giustizia: “Chiediamo che lo Stato si faccia carico di versare tutti i contributi pensionistici e scongiurare il rischio concreto che il testimone di giustizia arrivi alla pensione in condizioni di povertà – dice -. Abbiamo scritto alla Presidenza del Consiglio, al ministro dell’Interno, alla commissione parlamentare Antimafia”.

Negli anni in cui i testimoni di giustizia non hanno lavorato, ricevendo comunque una indennità dallo Stato, non hanno visto versati i contributi Inps e adesso molti si ritrovano alle soglie della pensione senza i versamenti necessari. La legge per le assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, voluta dal testimone Ignazio Cutrò e portata avanti da Rosy Bindi, risale al 2013 e ha visto le prime assunzioni a partire dal 2014. Chi ha iniziato a collaborare prima ha anni, in alcuni casi anche più di 15, di contributi non versati, così come i loro familiari che non hanno potuto più lavorare. “Ci appelliamo al presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi – dice Ignazio Cutrò, testimone che in Sicilia ha collaborato con gli inquirenti per sgominare la mafia dell’entroterra Agrigentino e assunto solo dopo il 2015 –. Vogliamo che la nostra figura sia equiparata a quella delle vittime del terrorismo e della mafia, chiediamo che i loro diritti già tutelati e riconosciuti vengano allargati anche a noi. Per questo motivo – aggiunge –, da testimone di giustizia ed ex imprenditore che ha dovuto smettere di lavorare chiedo allo stesso Stato di farsi carico dei versamenti previdenziali mancanti per far sì che un domani, chi ha scelto un percorso di legalità possa trascorrere serenamente almeno l’ultimo periodo della propria vita”. Il caso viene portato avanti dalla deputata del M5s Stefania Ascari, membro della commissione parlamentare Antimafia che ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno e al ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali.

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