Ho capito che occhiali porti

  • Postato il 26 novembre 2025
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  • Di Il Vostro Giornale
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Generico novembre 2025

“Noi non vediamo le cose come sono; vediamo le cose come siamo”, è quanto si può leggere nel Talmud, testo sacro babilonese, ma il concetto viene ripreso con diverse prospettive di osservazione e finalità, nelle critiche kantiane, nel pensiero di Bergson, nella psicanalisi junghiana e in numerosi romanzi. Una delle costruzioni più solide che ne derivano è quella del cosiddetto proiettivismo e di come negli altri si tenda a riconoscere alcuni aspetti del soggetto, itinerario già ampiamente studiato al quale rimando chi fosse interessato a questo aspetto del fenomeno; nello specifico vorrei soffermarmi su quanto la comprensione dello stesso sia utile, almeno a mio modo di vedere, per provare a conoscere l’origine e la natura degli “occhiali” costruiti nel tempo, occhiali che tutti indossiamo, che esprimono e, al contempo, determinano il nostro modo di rapportarci alla vita e agli altri. Ognuno di noi incontra l’altro da sè, non solo per come questo si rappresenta e si disvela o si occulta, ma anche filtrandolo attraverso la storia, privata e sociale, che abbiamo vissuto e che ci ha fornito le lenti attraverso le quali osserviamo. Credo che, più o meno profondamente, siamo consapevoli del fenomeno, ma l’abitudine e il dover prestare attenzione a tutto ciò che il buon Pascal definiva divertissement, ci porti a sovrapporre chi siamo a come ci osserviamo riflessi nella vita che viviamo e che determiniamo attraverso gli occhiali, sempre lì, ben saldi sul nostro naso, dei quali finiamo per scordare l’esistenza. In altre parole: se ci rendessimo conto che le nostre lenti sono blu, cominceremmo a chiederci se davvero la parete che stiamo osservando sia azzurra o se invece non potrebbe essere bianca e, ne consegue, chissà se ci piacerebbe davvero l’ambiente che abitiamo se ne potessimo conoscere la vera colorazione. È opportuno precisare che la “oggettività noumenica”, come nel caso del pigmento che caratterizza la parete dell’esempio, non ci è consentita se non attraverso lo strumento che impieghiamo per fare esperienza del fenomeno, a maggior ragione diviene importante conoscere le caratteristiche dello stesso. Altra opportunità che mi sembra interessante è che, se riuscissimo a comprendere la natura degli occhiali che indossa, per esempio, il nostro interlocutore, ci potremmo regalare opportunità relazionali di immensa ricchezza.

La consapevolezza di questo “filtro percettivo”, socio culturale, emotivo, esterno eppure profondamente intimo, che utilizziamo in ogni gesto, anche il più minuto e banale, se estesa a ogni esperienza, ci offrirebbe la via all’incontro non tanto con l’essenza dell’altro, che ritengo sia accessibile per altre vie, ma al viaggio che fino a noi lo ha condotto. Meraviglioso e inquietante sarebbe poter togliere gli occhiali dal nostro naso e osservare l’altro fare altrettanto, quale sconvolgente dinamica gnoseologica sarebbe lo spettacolo che potremmo osservare, quali inaspettati orizzonti, quali destabilizzanti e affascinanti scoperte e quale incanto nell’avvertimento della novità di noi stessi che ci scopriamo altro. Tranquilli, non è possibile deliberatamente realizzare una tanto sconvolgente operazione ma, a costo di essere accusato di adolescenziale romanticismo, credo che quando si vive la meravigliosa esperienza dell’amore, ecco che, senza volontà consapevole, ci si toglie occhiali e censure per lasciarci incontrare e per consentirci a una nuova possibilità relazionale. Quanto coraggio, forse incoscienza, addirittura un pizzico di follia in tutto questo, ma chi non ricorda la folgorazione di certi “momenti d’amore”? Per chiudere la parentesi e suggerire come aprirne infinite: ogni atto davvero artistico, pertanto libero e anarchico, richiede di porsi nelle medesime condizioni appena descritte, ogni artista, nel momento dell’esperienza estatica della visitazione, deve essere “il grande amante che ama senza un preciso oggetto d’amore”. Ma torniamo all’oggetto della nostra riflessione, non prima, però, di aver sinteticamente presentato un corollario utile alla comprensione più precisa di quanto stiamo sostenendo, il fenomeno della proiettività.

Normalmente si definisce la proiettività come un trasferimento involontario del nostro comportamento inconscio sugli altri, in modo da farci credere che qualità, valori, prospettive che avvertiamo in noi, in realtà appartengano ad altre persone. Credo che sia ancora più importante la condizione psicologica connessa al tempo del viaggio del soggetto nel momento in cui incontra l’altro: non sempre abbiamo la stessa disponibilità, nemmeno lo stesso fastidio, quando ci rapportiamo con estranei e nemmeno con persone alle quali siamo affezionati; lo stesso vale nel caso della visita a una città o nell’affrontare un compito. La condizione antecedente all’istante in cui ri-conosciamo nell’altro e nell’atto una certa “realtà”, ne determinerà le caratteristiche. L’altro diviene una sorta di telo da proiezione sul quale osserviamo accamparsi condizioni personali che possiamo osservare come estranee: un gesto arrogante o affettuoso colti nell’agire di un altro sono, molto spesso, rispecchiamenti della nostra condizione che non è conseguente ma precedente all’incontro. Per tornare all’allegoria cromatica di cui sopra, le sfumature delle lenti che calziamo, che pure conservano il colore di base che abbiamo prodotto nel lungo viaggio che abbiamo percorso rendendoci ciò che siamo, possono alterare anche in misura considerevole la percezione del momento. La stessa persona che, comunque, vediamo più o meno gialla, all’intensificarsi del blu delle nostre lenti assumerà una colorazione sempre più tendente al verde, fino a farci cadere in qualche consumato stereotipo del tipo: “Non ti riconosco più”. È chiaro che sarebbe più corretto affermare: “Non so bene che sia successo ai miei occhiali”. Per non parlare del fatto che non è dato per scontato che si sia tanto lucidi da comprendere come il giallo osservato attraverso un filtro blu si mostri come verde precludendoci ogni risalita alla reale caratteristica cromatica sia dell’osservato che dell’osservatore.

Siamo condannati a vivere una vita di più o meno consapevoli distorsioni della realtà? In fondo è un po’ come chiedersi se la persona che amiamo è davvero come ci suggerisce il nostro sentimento oppure no: se l’avessi incontrata in un altro momento della mia storia avrei provato la stessa emozione? L’avrei vissuta come altro da ora? Quale delle due esperienze sarebbe stata quella più prossima alla vera essenza di chi amo? Non sono ovviamente in grado di offrire risposte certe, anzi, fedele compagno mi è sempre il dubbio, tanto da non credere che esista una “realtà permanente” in chi incontro nè, ancor meno, in me; come dimenticare l’insegnamento eracliteo, tutto scorre, e ancora, come non fare tesoro della profonda riflessione gorgiana: l’essere non esiste, se anche esistesse non potremmo conoscerlo, se pure potessimo conoscerlo non saremmo in grado di esprimerlo. Ebbene, reputo assolutamente presuntuoso o velleitario poter anche solo immaginare l’incontro “definitivo” con chiunque e con se stessi, è anche per questa ragione che il momento d’amore ci india meravigliosamente: sapere senza la necessità di conoscere. Non correre il rischio mediocre del giudicare e nemmeno interessarsi dell’essere giudicati. Istanti meta temporali eppure effimeri nel tempo dell’uomo, attimi di eternità che ci regalano il dono di poter osservare gli occhiali altrui dopo essersi tolti i propri e, ancor più meraviglioso, non aver neppure la necessità di inforcare quelli altrui, regalare la serenità che consentirà al compagno dell’istante di chiudere gli occhi per vedere realmente e poi sussurrare: “Ho capito che occhiali porti e mi hai permesso di togliere i miei, di sentirmi nudo e non avere pudore, di osservarti nudo e respirarti per saperti senza giudizio alcuno, condividere il tuo mistero per restituirtelo intatto, senza alcuna pretesa, con la gioia di amarti in tutti i colori del mondo”. Non avrebbe più alcuna importanza il colore delle lenti, quello della pelle o dei pensieri, né la presunzione di supporre che ciò che vedi sia verità, rimarrà solo la certezza del profumo di che i tuoi occhi sono in grado di vedere.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.

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Il Vostro Giornale

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