Howard P. Lovecraft: i mostri del papà dei mostri
- Postato il 20 luglio 2025
- Di Panorama
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L’incubo più terribile non è quello che proviene dallo spazio profondo o dalle viscere furenti della terra. L’orrore ancestrale che funestava i sogni di Howard P. Lovecraft – uno dei più grandi e prolifici scrittori di ogni tempo – non era soltanto quello incarnatosi nell’abominio di Cthulhu o Shub-Niggurath, per quanto esempi di inaudita mostruosità. No, quell’orrore non è nulla in confronto a quello suscitato dalla razza umana. L’inferno, diceva qualcuno, sono gli altri. E si può dire che, con qualche variazione sul tema, il concetto valga anche per Lovecraft, non per nulla soprannominato il solitario di Providence, la città del Rhode Island dove nacque nel 1890 e morì nel 1937. Egli fu, come ben sintetizzò Michel Houellebecq, contro il mondo e contro la vita. Più precisamente, fu terrificato dalla modernità, dalla «ribellione delle masse» e dalla forma che stava prendendo l’Occidente europeo. Questa feroce misantropia è all’origine della cattiva fama di cui lo scrittore americano ha sempre goduto. Da una parte, egli ha ispirato tutta la letteratura weird e fantastica contemporanea, difficile trovare qualcuno influente come lui. Eppure, al contempo, e anche se le sue opere sono costantemente ripubblicate (pure sotto forma di fumetto o di serie televisiva), rimane attorno a lui un’aura di negatività. Per certi versi è ancora confinato nella letteratura di genere, e di certo non si fa grande pubblicità alla sua impostazione filosofica e politica. Solo in virtù di questa forzata marginalità non è stato eccessivamente demonizzato nel corso dell’ondata woke, anche se vengono costantemente reiterare le accuse di razzismo nei suoi confronti. È vero: Lovecraft non era un fan delle minoranze etniche. Ma, appunto, non era un fan dell’umanità in generale. Ridurre tuttavia le sue idee sociali e politiche a una manifestazione generica di astio per il genere umano frutto di turbe personali è profondamente ingiusto e sbagliato.
Lovecraft seppe cogliere le storture di quella che chiamava con disprezzo civiltà delle macchine, e pur non essendo affatto un uomo religioso (per lui il cielo era vuoto o popolato di creature disturbanti) seppe mettere in crisi la razionalità che si apprestava a dominare il mondo. Egli ha iniettato nuove paure sotto la pelle dell’Occidente, per dimostrare che gli alfieri della quantità, quelli che pretendono che tutto sia misurabile e conoscibile, si sbagliano di grosso. Resta sempre una ineliminabile quota di inconoscibile, di mistero. Anche se per Lovecraft questo mistero è meglio non svelarlo perché si troverebbe soltanto infinito orrore.
La sua critica alla modernità si dipana con potenza nelle lettere, in particolare nella 381 del 1929, indirizzata a Woodburn Harris, che fu uno dei suoi principali corrispondenti. La missiva è ora pubblicata integralmente da Adelphi a cura di Ottavio Fatica, scelta tra migliaia e migliaia di altre come la più emblematica della filosofia di H.P., e a ragione.
«Per come la vedo io», scrive Lovecraft, «la civiltà americana è quasi estinta ma autentica laddove sopravvive: in certi gruppi sparsi per tutto il Paese e in certe aree geografiche, nella Virginia occidentale in particolare, e in alcuni punti del New England. Quella che i conservatori deplorano e combattono non è certo la nostra cultura ancestrale ma una nuova e oltraggiosa barbarie di villani rifatti fondata sulla quantità, il macchinismo, la velocità, il commercio, l’industria, l’opulenza e l’ostentazione del lusso, che è spuntata in mezzo a noi come una pianta infestante intorno al 1830 con l’ascesa della massa becera. Ha poco a che spartire con la nostra civiltà – la corrente principale di pensiero e sensibilità classica e inglese instaurata in queste colonie da oltre due secoli di presenza ininterrotta, 1607-1820. […] Si tratta di una piaga da estirpare, qualora possibile, altrimenti da fuggire, tutto qui. Ma chiamarla “civiltà americana” sarebbe un affronto ai nostri antenati. È americana solo in senso geografico e tutto è meno che una civiltà, se non secondo la definizione spengleriana del termine. È una barbarie totalmente avulsa e totalmente puerile, basata sul benessere fisico anziché sulla superiorità mentale, e non ha titoli per essere tenuta in considerazione dai discendenti dei coloni. Certo anche da lì, come da altre forme di barbarie, potrebbe un giorno nascere una cultura, ma quella cultura non sarebbe la nostra e per noi è naturale controbattere le sue incursioni in un territorio che ci preme preservare per la nostra cultura. Noi ci batteremmo se i giapponesi cercassero di diffondere la loro cultura, pur di altissimo livello, negli Stati Uniti; di conseguenza ci battiamo di fronte a un sistema estraneo intenzionato a imporsi sulla terra che ha conosciuto l’ascendente del New England e della Virginia. Alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento ci siamo battuti contro l’ascendente francese che avanzava strisciando dal Canada e dalla valle del Mississippi. Oggi ci battiamo contro la “cultura” delle macchine che si trascina verso di noi dagli alveari di un’industria alimentata artificialmente e di un gusto limitato. Il fatto di essere condannati alla sconfitta non cambia la sostanza delle cose. Né l’imminente vittoria dell’ordine invasore cambia la sua natura intrinseca».
In realtà Lovecraft non si batté se non esternando le sue opinioni tramite lettera e scrivendo romanzi. Ma la sua opposizione fu forse per questo ancora più efficace: seppe infettare l’immaginario o, se volete, svelare l’infezione che era già in corso. Per certi versi, il suo piglio ricorda quello di Oswald Spengler, per il quale in effetti Lovecraft spende parole di ammirazione.
H.P. disprezza la democrazia, a suo modo rimane un aristocratico che si strugge per il declino occidentale. Depreca «il sentimento generale, tipico dell’era delle macchine, del collettivismo e del paternalismo nell’organizzazione socio-politica, che ottunde il senso dell’individualità, dell’indipendenza e della riservatezza su cui si fonda la vita familiare, per sostituirlo con una vita quasi pubblica, comunistizzata, in cui la promiscuità autorizzata dallo Stato sarà molto più naturale del matrimonio».
Soprattutto, detesta la massa: «Credo», scrive, «nell’inevitabile venuta di una devastante barbarie di meccanicismo e democrazia almeno quanto un finanziere del trust delle salsicce senza fantasie o un socialista da salotto ubriaco di etica. La odio come il veleno, ma la vedo arrivare. Ecco la prova che non permetto neanche ai sentimenti più forti di influenzare minimamente la mia opinione intellettuale». La conclusione del ragionamento è di implacabile durezza: «Per quanto riguarda la democrazia non trovo davvero molto da aggiungere a quanto ho detto in precedenza. Tutta la faccenda è un’illusione, proprio come l’“amore romantico”, solo che è l’illusione del Ventesimo secolo anziché del diciannovesimo. È la mera divinizzazione dell’astrazione etica di “giustizia”, più il rozzo attaccamento modernista alla quantità contrapposta alla qualità. Se ne fanno un principio cardinale non può che danneggiare la civiltà eppure, come dicevo prima, non lascio che la mia opinione interferisca con la valutazione della situazione».
E ancora: «È un male che sta crescendo inesorabilmente ed è probabile che si propagherà fino a ridurre la nostra cultura a un livello a stento sopportabile per un essere civile – a meno che, per un caso fortuito, un contro-movimento di aristocrazia intellettual-estetica riesca chissà come a coesistere con uno stato di democrazia socio-politica. Il futuro socio-politico degli Stati Uniti è quello di essere dominati da vasti interessi economici consacrati a ideali di guadagno materiale, attività priva di scopo e comodità fisica; interessi controllati da autorità astute, insensibili e di rado educate, reclutate in mezzo a un branco omologato mediante una competizione di acume affilato e furbizia pratica, una lotta per la posizione e il potere che eliminerà il vero e il bello come obiettivo, per sostituirli con il forte, l’enorme e il meccanicamente efficace. Detesterei avere discendenti che vivono in una simile barbarie, una barbarie così tragicamente diversa dalla vecchia civiltà del New England e della Virginia che appartiene di diritto a questa terra. Grazie a dio sono l’ultimo della mia famiglia: requiescamus in pace!». Di fronte all’orrore del mondo, ogni altro orrore è secondario, e persino la vita diventa una malattia da estirpare.